“Demolition” di Jean-Marc Vallée

 

demolition-130x90di Aldo Viganò.

«Tutto sta diventando una metafora», scrive (rigorosamente a mano!) il protagonista di Demolition in un inciso della lunghe lettere da lui indirizzate all’ufficio reclami della ditta produttrice del distributore automatico nel quale è rimasto incagliato il sacchetto di noccioline scelto nel corridoio dell’ospedale dove è appena morta sua moglie, vittima di un incidente automobilistico. E questa delle noccioline non è che la prima metafora di un film interamente costruito intorno a questa astratta figura retorica.

Nessuno dei nodi narrativi scritti da Bryan Sipe (sceneggiatore praticamente esordiente) e messi in scena dal regista canadese Jean-Marc Vallée (già autore di Wild e di Dallas Buyer Club) significa solo se stesso. Ognuno rinvia anche a qualche cos’altro. Metafora dopo metafora, Demolition ostenta così un impianto narrativo esplicitamente “ideologico”, che sarebbe oggettivamente insopportabile nella sua banalità, se Jean-Marc Vallée non fosse paradossalmente riuscito nella triplice impresa di rendere interessante l’ovvietà, di ammantare di significato anche le metafore più scontate e di evitare ciò che sembrava inevitabile: cioè, la caduta di un simile film nella palude dello psicologismo.

Dunque. Davis Mitchell  (Jake Gylenhall) è un uomo senza qualità e senza passioni,  che abita in una bella casa fuori città e fa l’agente finanziario nella azienda diretta dal suocero (Chris Cooper), padre di una moglie affettuosa ma che probabilmente egli non ha mai amato. Questo tran-tran in fin dei conti tranquillo è improvvisamente messo in crisi dall’incidente automobilistico dal quale Davis esce illeso, continuando a comportarsi come se nulla fosse successo.  Solo il contrattempo delle noccioline (metafora di un’esistenza casualmente inceppata?) sembra scuoterlo dallo stato catatonico con il quale riprende la sua vita di sempre. Se non fosse per le lunghe missive di reclamo, nelle quali condensa – come in una seduta psicanalitica – i frammenti della sua esistenza, si potrebbe dire che per Davis tutto è rimasto tale e quale. Sveglia  alla solita ora, tragitto in treno con i soliti compagni di viaggio, nessun giorno d’assenza da un lavoro d’ufficio svolto in modo distratto. Ma la metafora è ancora una volta in agguato.

«Per ricostruire qualcosa che si è rotto bisogna rimettere insieme i pezzi» dice il suocero a Davis, probabilmente con l’intento di scuoterlo. Ed ecco che lui si mette subito all’opera. Il frigorifero di casa gocciola e lui prova uno strano piacere nel distruggerlo. Poi, fa a pezzi il computer e butta all’aria le toilettes del suo posto di lavoro. Sotto lo sguardo stupido dei colleghi e del suocero, diventa sempre più un “demolition man”: giunge anche a pagare due manovali per svolgere il loro lavoro di distruzione di un paio di case. Nel frattempo, la destinataria di quelle lettere di reclamo si concretizza nella vita di Davis con l’aspetto di Naomi Watts, una donna-madre che si rivela essere anche lei un po’ sbandata (relazione senza amore con il suo datore di lavoro, solitarie fumate di canabis, difficoltà di comprendere il ribelle figlio adolescente – interessante esordio di Judah Lewis). Tutto questo stimola Davis ad atti sempre più distruttivi, che sembrano portarlo progressivamente alla deriva, ma che invece concorrono uno dopo l’altro (come in un puzzle) a rigenerarlo, perché demolendo palazzi per conto terzi e fracassando in proprio la sua lussuosa dimora, ma anche facendo da padre al figlio squinternato dell’altrettanto squinternata sua ex-corrispondente e sempre più sua compagna quotidiana, Davis rimette insieme i pezzi della propria vita, potendo infine ritrovare se stesso sulla giostra “vintage”, che egli ha convinto il suocero a restaurare e che  apparteneva al “pusher” sognatore di Naomi Watts. Il tutto sotto lo sguardo compiaciuto del fantasma sempre più presente della moglie morta.

Comunque la si racconti una storia simile ha il sapore di un pasticcio alquanto indigesto, ma il fatto è che, poco a poco, Jean-Marc Vallée riesce a compiere il miracolo di tradurla in immagini cinematografiche originali, pur mantenendone tutta la sua fastidiosa componente di apologo metaforico. E questo perché sullo schermo tutto si concretizza nell’esaltazione, squisitamente cinematografica, della fisicità. Sempre concreto e ben definito è lo spazio entro il quale i personaggi si muovono, ma altrettanto lo sono gli oggetti, le suppellettili e le pareti delle case vecchie o nuove che il protagonista distrugge, nonché – grazie anche alla recitazione di attori molto ben diretti – molto concreti sono i volti e i corpi in movimento  che la cinepresa di Vallée tende a riprendere soprattutto da distanza ravvicinata.  Quello che ne sortisce resta un film un po’ frastornante, qualche volta poco appassionante (le apparizioni del fantasma della moglie), sovente troppo intellettualistico; ma anche un film che si propone quale convinto esempio di un cinema capace di rovesciare la letterarietà del suo assunto narrativo, rivendicando l’ambizione di affermare la propria compiuta autonomia linguistica e artistica.

 

Demolition – Amare e vivere

(Demolition, USA 2015)   Regia: Jean-Marc Vallée – Sceneggiatura: Bryan Sipe – Fotografia: Yves Bélanger – Scenografia: John Paino – Costumi: Leah Katznelson. Interpreti: Jake Gyllenhaal (Davis Mitchell), Naomi Watts (Karen Moreno), Chris Cooper (Phil Eastwood), Judah Lewis (Chris Moreno), Heather Lind (Giulia), Polly Draper (Margot Eastwood), C. J. Wilson (Carl). Distribuzione: Good Films – Durata: un’ora e 40 minuti

 

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