THE HATEFUL EIGHT di Quentin Tarantino

hateful eightdi Aldo Viganò.
Per avere una pur pallida idea dell’uso del cinema che Quentin Tarantino fa nella splendida profondità di campo di The Hateful Eight (il film è stato girato a 70mm), conviene riportarsi alla memoria il prologo di Bastardi senza gloria o anche la scena di Django Unchained in cui Di Caprio uccide Christopher Waltz, mescolando magari il tutto con le sequenze della tortura nella cantina di Pulp Fiction o con quella della sparatoria finale di Le iene, ma anche con la chiacchierata iniziale tra i protagonisti di Jackie Brown.

Un cinema dai dialoghi difficilmente dimenticabili: carichi di tensione e  messi in scena con un ritmo lento che minaccia sempre di esplodere nella violenza. Un cinema fatto di sequenze apparentemente teatrali, ma  sempre caratterizzate dal predominio dello sguardo e da un uso molto fisico della parola, che non può fare a meno di aprire la via a spargimenti di sangue e a improvvisi colpi di arma da fuoco.

In questo senso, The Hateful Eight è proprio la summa di tutto il cinema secondo Tarantino. Apparentemente lento e prigioniero di uno spazio chiuso, il film si snoda per sequenze sempre cariche di tensione in cui tutto può accadere, sta per accadere e quando finalmente accade non è mai ovvio o scontato. Scandito in sei capitoli, The Hateful Eight racconta una storia che si svolge nelle vallate innevate del Wyoming, ma che poi predilige gli spazi claustrofobici dell’interno di una diligenza simile a quella di Ombre rosse o dello sperduto emporio di Minnie, dove sette uomini e una donna si trovano a fare i conti, costretti dalla bufera che infuria di fuori, con uno spietato gioco a eliminazione, nel corso del quale tutti mentono e nessuno  rivela mai completamente quello che è o che cosa sta per fare.

È in questo contesto che Tarantino costruisce – senza fretta, ma anche senza momenti di noia,  in oltre tre ore – un film fatto di “scene madri”, anche non necessariamente cucite tra loro da una sceneggiatura che non si preoccupa tanto di essere “bien faite” nel senso letterario del termine, pur facendo un uso molto sapiente dei suoi tiranti narrativi: con in primo piano, la funzione che nel racconto svolge quella lettera firmata Abraham Lincoln che l’ex-nordista e ora spietato cacciatore di taglie Samuel Jackson ogni tanto tira fuori di tasca e che a turno altri (Kurt Russell e Walton Goggins) leggono con un misto di ammirazione e di incredulità. Sono questi, quelli della lettera (vera o falsa che sia), alcuni dei pochi momenti di pausa di un film che procede interamente secondo i ritmi fisici ed emotivi dettati dalle parole che pronunciano quei personaggi sempre ambigui, interessanti e complessi.

Come accade in Amleto alla fine lo spazio scenico sarà cosparso di cadaveri, immersi nel proprio sangue come i protagonisti di Le iene o di Pulp Fiction. Ma nella visione insieme tragica e “pulp” della vita, che caratterizza il nuovo film di Tarantino, non c’è più spazio né per frasi lapidarie (“Il resto è silenzio”, conclude Amleto), né per l’efficienza ordinatrice di un qualsiasi Mr. Wolf (Harvey Keitel, in Pulp Fiction): il vero interesse del regista, giunto con questo al suo ottavo film, tende ormai direttamente verso il cinema puro.

Un  cinema che – anche nei suoi significati più esplicitamente politici e sociali (il mito americano che si autodistrugge, il latente razzismo di una società fondata sul denaro, ecc.) – si costruisce interamente sullo schermo attraverso un sempre più elaborato uso delle inquadrature che si intrecciano “necessariamente” con splendidi dialoghi messi in bocca ad attori molto ben diretti; ma anche con l’esplosione improvvisa di atti di violenza, la ricerca di una impossibile via di salvezza (la parallela ricerca di un arma liberatoria da parte di Jackson immobilizzato a letto e di Jennifer Jason Leigh ammanettata al cadavere di Kurt Russell), la sapiente  direzione degli interpreti (l’inglese Tim Roth, il laconico cowboy Michael Madsen, il messicano Demian Bichir), che fanno da contorno a quella che mi sembra essere la sequenza più memorabile di un film fatto tutto di memorabili sequenze. Quella con il “nero” Samuel L. Jackson (il cui personaggio si chiama Marquis Warren, come il regista western degli anni Cinquanta), in impeccabile divisa nordista, che provoca con implacabile determinazione il  vecchio (ma non innocente) confederato razzista, Bruce Dern, disposto a tutto pur di alimentare il suo inestinguibile odio per la società nata dalla guerra civile, ma non capace di ascoltare i particolari di quella che potrebbe essere stata la vera morte di suo figlio, nel cui ricordo egli ha riposto il proprio ultimo residuo di umanità. E, come quasi tutte le altre sequenze di The Hateful Eight, la scena si chiude con un preciso colpo di pistola: ultimo mitico residuo di un film western che ha perso ormai il fascino della leggenda, ma che rivendica ancora un legittimo posto nel pantheon del cinema.

THE HATEFUL  EIGHT
(USA, 2015)

regia, soggetto, sceneggiatura: Quentin Tarantino – Fotografia: Roberto Richardson – Scenografia: Yohei Taneda – Costumi: Courtney Hoffman – Musica: Ennio Morricone – Montaggio: Fred Raskin. Interpreti e personaggi: Samuel L. Jackson (magg. Marquis Warren), Kurt Russell (John Ruth), Jennifer Jason Leigh (Daisy Domergue), Walton Goggins (Chris Mannix), Demian Bichir (Bob), Tim Roth (Oswaldo Mobray), Michael Madsen (Joe Gage), Bruce Dern (gen. Sanford Smithers), James Parks (O.B. Jackson), Channing Tatum (Jody Domergue).

Distribuzione: 01 Distribution – Durata: tre ore e 7 minuti

 

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