“Suburra” di Stefano Sollima

suburradi Aldo Viganò.
Tra i cinefili si sussurra da qualche anno (e i più giovani di loro lo affermano già ad alta voce), che il vero cinema lo si trova oggi soprattutto nei “serial” televisivi. E quanto si diceva sinora guardando soprattutto agli States sta ormai assumendo valore anche in Italia, grazie in primo luogo a Stefano Sollima (il cinquantenne figlio di Sergio), che sta portando al cinema l’esperienza maturata come regista dei serial tratti da film altrui, quali Romanzo criminale o Gomorra.

Tre anni dopo l’apprezzato ACAB – All Cops Are Bastards, eccolo quindi dietro la cinepresa di questo Suburra. Un bel film di “genere”, va detto subito. Lontano da quelle tentazioni ideologizzanti care a tanto cinema italiano. Sensibile ai modelli visivi e narrativi dei “serial” americani, ma non appiattito su di essi. Caratterizzato da un’ottima direzione degli attori e da una quantità di personaggi ben raccontati; tali forse da preludere alla loro sopravvivenza in qualche nuovo “serial” disposto ad avvalersi del loro successo sul grande schermo. Perché Suburra, almeno per struttura narrativa, ha indubbiamente già in sé un’ipotesi di diramazione seriale. E questo è insieme il suo fascino e il suo limite.

Nei fotogrammi del film, c’è viva la suggestione della Storia con la S maiuscola (Suburra è ambientato nel novembre 2011, il mese in cui si dimise l’ultimo governo Berlusconi e iniziò a circolare la voce dell’abdicazione di papa Benedetto XVI) e forte è il fascino squisitamente visivo del paesaggio laziale (la Roma della grande corruzione di stampo mafioso e le periferie o la spiaggia di Ostia dove domina la piccola criminalità che ambisce a ingrandirsi); ma ci sono anche, pur sovente solo abbozzati, tanti personaggi che ben vivono nelle immagini squisitamente cinematografiche. Dal politico Favino che si muove tra Parlamento e ristoranti di lusso, erotomania e droga, corruzione e ricatti; alla Banda della Magliana con il suo ultimo rappresentante, l’inquietante Claudio Amendola, diventato un “boss” portavoce della mafia, esecutore di spietati omicidi e tradito infine solo dal bisogno di far visita alla vecchia mamma. E poi, c’è nel film tutto un universo di belle ragazze che si muovono tra droga e prostituzione, con zingari che gestiscono la criminalità dall’interno del loro caotico clan famigliare, arrivisti che cercano di sopravvivere tra accordi dettati da piccoli o grandi interessi personali, delazioni e voglia di ascesa sociale o di impossibile fuga dalle proprie responsabilità.

Scandito in capitoli che annunciano i sette giorni precedenti l’Apocalisse (coincidente con le dimissioni di Berlusconi, mai presente e mai citato per nome), Suburra racconta una Roma (e un’Italia) ormai senza speranza di riscatto. E così facendo si muove tra cronaca e cinema, sapendo sul grande schermo mantenere bene in equilibrio queste sue due radici, pur lasciando il sospetto che basti poco (la sua trasformazione in “serial”?) per far precipitare il tutto nella consolatoria banalità del quotidiano.

Per ora comunque ciò che conta è il film. E questo, più che guardare alla cronaca (è solo un caso cronologico, anche se certo non privo di artistica valenza premonitrice, che Suburra arrivi sullo schermo proprio nei giorni di quell’altra “suburra” evocata dal caso Marino), porta in primo piano come i suoi autori abbiano ben tenuta presente la grande lezione del cinema hollywoodiano (e dei “serial” a esso esplicitamente ispirati), privilegiando la valenza evocativa delle immagini in movimento, raccontando il presente con libertà d’immaginazione e facendo tesoro non solo di quella grande lezione cinematografica, ma anche di quella che non cessa mai di essere offerta dai “classici”, i quali, parlando con forza del presente, hanno saputo e sanno sempre sintetizzarlo in un autonomo discorso attraverso la specificità del proprio linguaggio: molto concreto in ciò che rappresenta, arricchito dall’esperienza conoscitiva del passato e, più o meno consapevolmente, capace di elevare l’espressione artistica a una personale e autonoma annunciazione del futuro. Forse – né Suburra, né la regia di Stefano Sollima – riescono ancora pienamente raggiungere questa sintesi degna dei “classici”; ma certo sa già di miracoloso che, nell’ancora asfittico clima del cinema italiano, sia il film sia la sua messa in scena hanno almeno l’enorme merito di indicare con lucidità e chiarezza la strada che vogliono percorrere.

Nei fotogrammi di Suburra si respira sempre l’aria del vero cinema. E di questo non si può che essere grati ai loro autori, che si spera possano al più presto invitarci a una nuova festa della mente e delle emozioni, degli occhi e dei sensi, da godere insieme sul grande schermo.

SUBURRA
(Italia, 2015)
regia: Stefano Sollima – soggetto e sceneggiatura: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Carlo Bonini, Giancarlo De Cataldo – fotografia: Paolo Carnera – scenografia: Paki Meduri – contumi: Veronica Fragola – Montaggio: Patrizio Marone.
interpreti: Pierfrancesco Favino (on. Filippo Malgradi), Claudio Amendola (“Samurai”), Alessandro Borghi (Aureliano “Numero 8” Adami), Elio Germano (Sebastiano), Greta Scarano (Viola), Giulia Elettra Gorietti (Sabrina), Antonello Fassari (padre di Sebastiano), Jean-Hugues Anglade (cardinale Berchet), Adamo Dionisi (Manfredi Anacleti).
distribuzione: 01 distribution – durata: due ore e 10 minuti

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