Quindici anni fa si pensava che a guidare il neonoir inglese della generazione clip & pulp fosse Guy Ritchie, ma a poco a poco s’è invece capito che il capofila di questa ondata tra action e grottesco, pulp e commedia, potrebbe essere proprio l’altro: Matthew Vaughn, il compare di set e di scenari modaioli, l’amico londinese cresciuto tra Inghilterra e California che inizialmente si limitava a produrre ma che ormai s’è imposto pienamente anche come regista.
Uno ha sposato Madonna, l’altro Claudia Schiffer, insieme praticano un cinema che vuol sembrare eternamente giovane, furbo e smaliziato, capace di flirtare con tutto quanto appartenga all’universo dell’immagine in movimento ma abbia in fondo poco da spartire col cinema. Ad imporli era stata l’accoppiata Lock & Stock e The Snatch alle soglie dell’anno 2000, con Ritchie regista e Vaughn produttore. Dopo l’imbarcata di Travolti da un destino, le loro strade si sono divise e Vaughn è passato alla regia con The Pusher (2004), centrando subito il bersaglio: il film guarda un po’ alla migliore tradizione hardboiled, un po’ al noir inglese anni ’70, molto alle loro reinvenzioni brillantemente superficiali del neo-noir, ma con una regia ben più solida e meno clippata rispetto a quella di Ritchie. Oltre che con un ottimo Daniel Craig, uno che le cose sembra sempre prenderle più sul serio di tutti.
La sua impresa più stravagante resta quella di Stardust (2007), folle versione al maschile del viaggio oltre lo specchio di Alice, variazione su temi fantasy con Michelle Pfeiffer strega cattiva che gioca a invecchiarsi orrendamente, e con Robert De Niro ruvido pirata gay che passa il tempo a vestirsi da donna e ballare il can-can nella stiva della nave.
Subito dopo, però, Vaughn decide di portare la sua vena sempre un po’ british all’interno del blockbuster fumettaro, puntando al cuore dell’immaginario da multiplex. The Kick-Ass (2010) sembra conquistare tutti raccontando le imprese dei supereroi più strampalati degli ultimi tempi, un mondo terribilmente meta che incarna l’era del superuomo di massa secondo un’estetica ultrapop, tra commedia e violenza parossistica. Un film accolto da molti come parodia della moda cinecomics, ma che in realtà costituisce un’ulteriore variazione all’interno di quello stesso orizzonte, finge di irriderlo e invece lo celebra a suo modo, restando fermamente rinserrato tra blockbuster e fumetto, manierismi e citazionismi.
X-Men l’inizio (2012) vede Vaughn vacillare, adattandosi al ruolo di semplice esecutore di epopee transmediali, in quello che resta forse il suo lavoro più anonimamente professionale. Ma stare alla catena di montaggio non va bene per chi vuol sempre sentirsi al centro della moda. Ed è per questo che Vaughn rinuncia a dirigere anche X-Men: giorni di un futuro passato, così come aveva schivato il sequel di Kick-Ass, per realizzare invece con la 20th Century Fox Kingsman: Secret Service (2014), dalla miniserie del Mark Millar di Kick-Ass.
Con Kingsman, Vaughn affonda alla sua maniera nel mix di fumetto e action, neonoir e black comedy, spy e grottesco, vale a dire spostando sempre di qualche centimetro più avanti le frontiere transgeneriche, ma restando giudiziosamente entro i confini di quel tipo di prodotto. Stavolta abbiamo inseguimenti d’auto in retromarcia, scazzottate con denti che volano via al rallentatore, centinaia di teste che esplodono letteralmente come fuochi d’artificio, stragi di cristiani estremisti in chiesa, tacchi a spillo su gambe artificiali in grado di affettare le persone dalla testa ai piedi in un colpo solo. E al centro di tutto c’è l’aplomb irreprensibile di Colin Firth come distaccato gentleman della ferocia britannica. Il film è un ininterrotto fuoco di fila di trovate grafiche, citazionismi, violenze grottesche, sempre condotto a ritmi vorticosi ma alla lunga inesorabilmente ripetitivi, fino all’immagine conclusiva che si sta già propagando come unica provocazione inaccettabile per molti spettatori di un prodotto in fondo molto convenzionale, ma come sempre in Vaughn animato da uno spirito che tenta o simula la rottura di qualche confine.
Kingsman è il film che lo può candidare alla regia di un prossimo 007, se si ha davvero voglia di cambiar strada, di smetterla col nuovo Bond supereroe-con-problemi per aggiornare la smagliante dimensione pop dell’epoca d’oro? Di sicuro, Vaughn conferma di non voler essere un semplice shooter al servizio dell’industria, pur muovendosi costantemente entro quello stesso orizzonte. E’ forse un modo tutto contemporaneo di proporsi come autore: ponendosi sempre nel cuore di una cultura pop e frullandone ininterrottamente gli ingredienti.