La scuola dello Stabile di Genova fra teatro e cinema


di Aldo Viganò.

Tra le tante insufficienze che lo contraddistinguono ormai da troppo tempo, il cinema italiano degli ultimi decenni ha però un merito: quello di aver saputo rinnovare il proprio “parco” attori, attingendo non più solamente agli effimeri successi degli show televisivi o all’occasionalità della “strada”, ma sempre più guardando al teatro e alle molte scuole di recitazione che ne alimentano il rinnovamento.

Attori sovente competenti e preparati, anche ben disponibili a confrontarsi con il mezzo cinematografico, se solo gli sceneggiatori fossero in grado di scrivere per loro dialoghi pronunciabili, i registi avessero la capacità di dirigerli e i produttori si impegnassero a metterli alla prova. Certo, anche se il teatro non è il cinema e le diffidenze reciproche sono ancora molte, lavorare
con attori che possiedono almeno i rudimenti del mestiere, permetterebbe di far vivere sullo schermo dei personaggi non necessariamente sottomessi all’ideologia o al realismo paesaggistico o all’obbligo del doppiaggio (neorealismo docet). Inoltre, potrebbe spingere sceneggiatori, registi e produttori cinematografici a dare il primato alle strutture narrative, invece che alle velleità autoriali, sovente così mal riposte. Come del resto si faceva una volta quando tutti o quasi gli attori cinematografici arrivavano dal palcoscenico (almeno nei film di “genere”: melodrammatici, avventurosi, comici o da “commedia all’italiana”, che fossero) e proprio per loro si scrivevano i film e s’impostava lo sguardo della cinepresa.
Ora, da un po’ di tempo in qua, dopo una parentesi (con poche eccezioni) durata alcuni decenni, accade che la diffidenza tra cinema e teatro tenda a venir meno: palcoscenico e
schermo cessano di essere alternativi e tornano timidamente a considerarsi complementari.
E questo non può che far bene al cinema italiano, come lo aveva fatto a quello hollywoodiano con l’avvento del sonoro, o continua a farlo ancora oggi a quello inglese, tedesco o francese.
Ma da dove arrivano questi nuovi attori di una generazione post-divistica?
Si diceva, dalle Scuole di Recitazione. E tra queste un ruolo determinante lo ha per riconoscimento diffuso la Scuola del Teatro Stabile di Genova, dove pur non si insegna direttamente a fare del cinema, ma sicuramente s’impara a recitare senza enfasi e senza birignao, puntando sempre sulla concretezza del dire e del fare. Appunto perché si formano
soprattutto degli attori, addestrandoli in primo luogo a interpretare dei personaggi.
È dalla Scuola di Genova che provengono attrici e attori quali Sara Bertelà (Il mio migliore nemico di Carlo Verdone) o Gianluca Gobbi (capace di trascorrere senza imbarazzo alcuno dai film dei Vanzina a quelli di Davide Ferrario, da La febbre di D’Alatri alla bulimica guardia svizzera di Habemus Papam) o Fabrizio Contri (Il volto di un’altra di Pappi Corsicato e tante fiction tv). Ma anche il lanciatissimo Flavio Parenti – recente primo attore della miniserie di Pupi Avati, Un matrimonio, e già visto visto in ruolo da protagonista in Parlami d’amore e Un altro mondo di Silvio Muccino, Colpo d’occhio di Sergio Rubini, Il sangue dei vinti di Michele Soavi, Io sono l’amore di Luca Guadagnino, Le ombre rosse di Citto Maselli, To Rome with Love di Woody Allen e l’ancora inedito Goltzius and the Pelican Company di Peter Greenaway – o molti comici sulla cresta dell’onda (anche  cinematografica) quali Paolo Kessisoglu e Luca Bizzarri o Carla Signoris e Maurizio Crozza, sino agli ancora poco noti (cinematograficamente parlando) Antonio Zavatteri (Un giorno speciale di Francesca Comencini), Alberto Giusta (Giorni e nuvole di Silvio Soldini), Lisa Galantini (Il gioiellino di Andrea Molaioli) e Dario Aita (La prima linea di Renato De Maria).
L’elenco potrebbe essere molto lungo, ma tra gli attori di solida professionalità cresciuti
a Genova e aperti alla prospettiva della ricerca del nuovo – dal teatro al cinema, ma in alcuni casi anche dalla televisione al web – vanno almeno segnalati anche Fausto Paravidino, che oltre a essere un autore drammatico di notorietà internazionale è anche regista cinematografico (Texas) e attore in numerosi film, e Valerio Binasco, il quale nel 2007 mise in scena un film rimasto senza distribuzione (Keawe) e negli ultimi tempi trascorre agilmente dalla regia teatrale all’attività di interprete sia sul palcoscenico che sul set (basti citare, tra gli altri, Lavorare con lentezza di Guido Chiesa, La bestia nel cuore di Cristina Comencini, Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek e Noi credevamo di Mario  Martone).

Proprio con BinascoFilmD.O.C. si è soffermato a discorrere sul rapporto che esiste tra la
Scuola di Recitazione dello Stabile di Genova e il cinema. «Molti registi di cinema che conosco – osserva Binasco – hanno un misto di paura e di disprezzo per quello che loro pensano sia un modo di recitare “teatrale”, tanto che li ho visti scartare attori anche bravi solo perché avevano un curriculum troppo sbilanciato verso il teatro. Ma di quelli che arrivano da Genova invece si fidano, perché, dicono “non sembrano attori”. E lo dicono come se fosse un complimento». Lo spartiacque è offerto da quello che si suole chiamare “concretezza” e su cui s’insiste tanto alla Scuola di Genova. «Credo però che sarebbe un grave errore – puntualizza Binasco – pensare che ci sia una concretezza che va bene per
tutto, sempre. La recitazione viene chiamata “concreta”, mi pare, quando instaura
un rapporto credibile con le parole che l’attore dice, e con le azioni che compie: cioè,
quando l’attore “fa” credibilmente quel che deve fare. Ma anche parlare, beninteso, al cinema come a teatro è un’azione, esattamente come un’altra. Il lavoro dell’attore, che non è misurabile né prevedibile, consiste nel tenere in perfetto equilibrio il dire e il fare. In mezzo infatti non c’è niente: al cinema come a teatro, che pur sono così diversi».
Dal punto di vista di un attore quali sono queste differenze? «Se potessi cavarmela con una
battuta, direi la noia. Fare un film può essere terribilmente noioso. Il teatro è un gioco, il cinema un mestiere. Il teatro è continuità e “tenuta”, il cinema è “immediatezza” e perdita
di tempo». Puoi essere più specifico? «Gli attori di cinema, e ultimamente ne ho diretti
parecchi a teatro, non sono abituati a reggere la concentrazione a lungo, mentre gli attori di teatro sovente hanno poca “immediatezza”.
In entrambi i casi, non è tanto un problema di talento, quanto di allenamento.
Personalmente, ho sempre cercato, come attore, di conciliare l’”immediatezza” del cinema
con la “tenuta’ teatrale”, e questo richiede certo una concentrazione enorme, come del
resto ben dimostra l’Actor’s Studio di Strasberg, che ha sfornato grandi divi del cinema
e ha cambiato la recitazione nel mondo, ma che era una scuola di teatro!».
Valerio Binasco sa molto bene che c’è sempre qualcosa di misterioso nel lavoro dell’attore
e, per evidenziarlo, cita Orson Welles che a tutti gli amici americani di passaggio in Italia
consigliava di andare a vedere Eduardo, ma aggiungeva subito:
«A teatro, però, perché il genio di quel prodigioso m a e s t r o dell’”underplaying” svanisce
quando recita in un film: sembra imbarazzato!»; oppure ricorda quello che gli disse un giorno Gabriele Lavia, dopo averlo visto in un ruolo molto “non recitato”:
«Tu in realtà sei più istrione di me! Sei un gigione della sottrazione!». E per questo Binasco
aggiunge: «La recitazione teatrale è qualcosa che investe tutto il corpo. L’attore sente
fortissimamente che il suo corpo (di cui anche la voce fa parte) è immerso in uno spazio molto vasto. La recitazione teatrale nasce in una strana festa dei sensi, alla quale partecipano il silenzio, la luce, il buio, i rumori della platea, l’odore del ‘finto’ che circonda l’attore, il suono delle voci. L’attore in teatro sente il suo corpo come un unicum espressivo. Al contrario quando io recito al cinema sento che tutto, prima o poi, arriverà a concentrarsi solo sul mio volto. Il corpo è spesso poco più di un supporto per reggere la faccia, e siccome
io non ho un buon rapporto con la mia faccia ne consegue che non ho neppure un
buon rapporto con il cinema. Almeno come attore».

Perché come regista invece? «Paradossalmente, come regista teatrale mi
piace lavorare come se stessi facendo un film. Potrei dire che il cinema è il mio
maestro di sintesi, di unità di azione, e, soprattutto, di suspense. Cerco, come
posso, di stare alla larga dalle noiose seduzioni del didascalismo e del concettualismo
che sono le malattie del teatro, per andare diritto dentro la narrazione. Con
una battuta potrei affermare che faccio il teatro perché penso il cinema».
Ma proprio dal punto di vista della narrazione qual è la diversità tra cinema e teatro?
«Innanzitutto, come già accennavo, c’è il problema del tempo, che si riverbera inevitabilmente sui risultati. I tempi di realizzazione del cinema sono infiniti, si misurano anche in anni, mentre a teatro tendenzialmente tra il concepimento di un progetto e la sua attuazione trascorrono al massimo pochi mesi. La mia ispirazione (quando c’è) si nutre di rapidità, di energie fameliche, proiettate in avanti. Non potrei mai lavorare a un’idea per due o tre anni. Non potrei mai rinunciare a quell’ ampissimo margine di improvvisazione e di imprevisto che caratterizzano un’opera teatrale mentre si compie. Poi, per dirla in modo più generale e più complesso, mi piace sottolineare che il cinema e il teatro, nel profondo, sono meno parenti di quello che sembrano essere. Il teatro è fratello di sangue dell’Epica. Il cinema lo è del Romanzo. Possono avvicinarsi solo in apparenza. Però possono rubarsi molti segreti. Il teatro che mi piace, per esempio, usa molte tecniche narrative del cinema. Si
affida a composizioni di oggetti diversi e miscelati tra loro con furbizia sinfonica: la profondità di campo, l’uso non didascalico delle musiche, la messa a fuoco, ecc.».
In questo hai dei maestri riconosciuti?
«Direi di no, anche se nella mia carriera ho e ho avuto molti maestri immaginati.
Ho, infatti, “immaginato” di imparare qualcosa da Charlie Chaplin (lo immagino ancora oggi) e per molto tempo sono stato un allievo immaginario di Aki Kaurismaki; ma in realtà non sono stato veramente allievo di nessuno».
Quale film consiglieresti di vedere e rivedere a chi si accinge a fare la regia del suo primo film? «Nessun dubbio. Luci della città di Chaplin, ma la sua visione la consiglierei anche a chi si accinge a fare il suo centesimo film o a chi non vorrà farne mai neanche uno».

Postato in Attori, Numero 100.

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