Il cinema (r)esiste


di Enrico Ghezzi, Erik Negro.
La pellicola non scorre più: Enrico Ghezzi parla con Erik Negro del cinema alle soglie del digitale.

Tempi di bilanci, di una stagione (non) qualsiasi per la storia e le storie del cinema. Dopo centovent’anni tutto sta per cambiare e proprio i settant’anni di Venezia, pochi mesi fa, sono lì a dimostrarlo. Lido di alti e bassi che si consuma come ogni tarda estate. Laguna muta, fatta di negativi, sognando di volare, pensando ad un amore o ad un viaggio, neanche più in celluloide ma in codice. Un festival a caso, di caos, schernito apparentemente, che fa vedere le cose/costole e le direzioni/erranze di una società. Un festival che dalla stravagante ma interessante (cripto)retrospettiva, in cui il senso del classico e del restauro (con tutti i teoremi possibili sul digitale) si perde irrimediabilmente, non si fa (come non vuole farsi) capire. Un resoconto di cos’è stato, dall’immortalità dei Lumiere alla codifica della perversione hollywoodiana. Il confronto tra questa e la splendida completa su Cukor, a Locarno, è presto fatto. In quel caso il curatore (Roberto Turigliatto n.d.r.) si è trovato ad essere (ri)autore di un’opera solo per conservare, non il cinema in sè, ma la sua memoria. Uno spettro di un futuro non troppo lontano. Forse i festival allora dovrebbero presupporre un rovesciamento a priori (un concorso dei classici) con una retrospettiva ipercurata, in cui il cinema si possa rivelare e rivedere. Una visione ancora, un ultimo spettacolo, prima che qualsiasi spettatore sia in grado di poter assorbire qualsiasi nuova immagine.

Il cinema ora è digitale, appunto, e ogni giorno che passa continua a perdere la sua strada, quella dell’epifania del reale, quella dello scontro tra iconofili ed iconoclasti. Un serie indefinita ed indefinibile di zeri e uno. I grandi film ormai (quelli che vanno oltre l’intenzione) propongono un universo raddoppiato. Un tempo del fuoricampo, dove nulla è obbligatorio ed obbligato, una proposta evidente di autotradursi dell’immagine. Ormai più il cinema si verifica, e più diventa casuale. Rimane così la questione dello spettatore (non dello spettacolo e dell’intenzione dell’autore), la questione del dopo, del vis(su)to. (Ri)agitando il presente si evita di cadere oltre nel futuro (quella smemoratezza del passato ormai onnipresente). Il cinema è indifferente alla visione, spesso esiste ancora nella soggettiva del suo pensarsi, perchè è impossibile ormai fingere che il set non sia frantumato. Le caverne platoniane ormai spoglie a presupporre una cecità langhiana e rayana.
In questi ultimi anni non c’è più da chiedersi in quale età del cinema siamo, ma quanto nel cinema si può configurare un’idea spaziale e sociale di età. Ad inizio anni Sessanta (la Nouvelle Vague su tutto e tutti) ci fu un’altra, dopo i Lumiere, illusione di totalità ed immortalità. Poi tutto venne (ri)spostato, il moderno ed il suo passato. Dal Duemila il cinema cerca un altra piccola immortalità con un lavoro duro, di lutto mentre lo si vive. Un lavoro forse mai così complesso, così pornograficamente vivo sul morto. Ora rimane poco o nulla, rimangono i Godard e i De Oliveira, il cinema come onnipresenza, come fine, una forma finale e magmatica che si condensa in un film. In questa sua aura apocalittica non fa altro che (di)mostrarci il bordo dello spazio che ci spinge fuori. Ognuno viene portato verso il suo punto limite, da dove si vede il resto, la propria vita. Allora lì si potrebbe anche cadere (e forse sarebbe anche bello). L’ultimo Carax e l’epifania (dello smettere) del vedere. L’ultimo Vigo, l’atto di amore tra immagini. Il cinema che ormai non può più negarsi, il cinema che si mostra.
E’ il tempo degli ultimi film del mondo quindi. In pochi anni Ruiz e German, Malick e Tarr, Ming-Liang e Jodorowsky, Resnais e Reitz, Sokurov e Bressane ci hanno mostrato la via della fine. La morte è convocata nella vita, come la vita è (ri)chiamata nella morte. Quell’attendere la luce e l’oscurità come alfabeto primario di un altra esistenza, ormai non c’è più. La pellicola non scorre più, nessun operaio uscirà più da nessuna fabbrica ed il treno dei Lumiere non arriverà mai più alla stazione di La Ciotat. Eppure il cinema è sempre lì, senza mai arrivare e senza mai andarsene. A volte si consuma su una limousine e gioca continuamente a cambiare il suo volto. Rimane la paranoia banale e la stranezza senza appoggio della paura di diventare un film. Rimane quell’ossessione del reale, quel senso forte che ormai interroga l’impossibilità di una verità del cinema, non più quello fisico ma quello numerico e a volte pure tridimensionale. Paure e desideri.
Il cinema esiste ed esisterà sempre perchè nessuna dimostrazione sarà data, chi cerca di affermarla non si rende conto che la sta già svuotando. Proprio qui allora torna De Oliveira, il totem, colui che ha girato dal muto al digitale, colui che scrisse un film negli anni Cinquanta e che riuscì a realizzarlo appena tre anni fa. Gli strani casi della vita e del cinema. A chi serve l’universo se l’umanità scomparisse? E cosa potremmo (far) vedere se l’immagine fosse fasulla? Fare e vedere cinema rimane un atto (critico) di fede, una nuova educazione sentimentale. Un continuo ripensare sulla storia, sulla vita, su tutto quello che succede qui ed ora. Guardiamo per inquadrature, camminiamo per carrellate, crediamo alla memoria. Tutto è passato, la sola memoria esiste, il rivedere un fantasma di un mo(vi)mento. La memoria è invenzione, è illusione, è il cinema. Tutto sta nello svelarsi, tutto sta ancora nel chiedersi se quel momento è esistito fuori dalla pellicola (o dal Dcp). Tutto sta ancora nell’andare nel buio, per cercare la luce. Buone visioni.

Postato in Critici, Numero 100.

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