66° Festival di Cannes: NEBRASKA di Alexander Payne

L’ultima apparizione in un grande film era stata per “Ancora vivo” di Walter Hill, a metà degli anni Novanta. Poi Bruce Dern, grande faccia affilata e nevrotica del cinema americano anni ’70, sembrava sparito dalla circolazione. Da qualche anno, invece, è ritornato a farsi vedere alla grande. Prima con Francis Ford Coppola (“Twixt”) e Quentin Tarantino (“Django Unchained”), adesso – a 77 anni – come protagonista di quest’ultimo film di Alexander Payne. Tutti felici che la giuria di questo festiuval gli abbia dato il premio per la miglior interpretazione maschile.

Il suo ruolo è quello di un vecchio padre testardo, gran bevitore e un po’ rimbambito, che si convince di aver vinto il premio promesso da un foglietto pubblicitario ed affronta così insieme al figlio un lungo viaggio attraverso l’America di provincia per andare – dice – a ritirarlo. In questa estrema avventura on the road attraversa paesaggi e città della sua vita, rivede amici e parenti, ripercorre le proprie radici, i propri rapporti e naturalmente l’ordinario inganno quotidiano del sogno americano, sempre mantenendo il suo atteggiamento forse solo apparentemente stralunato.

E quando finalmente arriva a destinazione, la dipendente dell’agenzia dice che non esiste alcun premio da ritirare. Ma poi aggiunge, indicando Dern: “Ha l’Alzheimer?”. E il figlio: “No, crede a quello che gli dicono”.

Qualcosa in questo viaggio può ricordare “Una storia vera” di Lynch, più concretamente siamo nel solco dell’on the road indipendentista alla “Sideways”, ma condotto in modo più sottile e maturo, riducendo ambizioni ostentatamente poetiche e tic autoriali. Payne prosegue nel solco di una commedia condotta sul filo di dialoghi e momenti brillanti, ma dalla sostanza amarognola: il viaggio on the road nel proprio passato si rivela un viaggio nella mediocrità e nel fallimento di tutti, ma permette anche di riportare alla luce i rapporti umani tra un padre e un figlio, riflettere sulla vita, le sue malinconie, le sue disillusioni. Tutto in un bianco e nero sempre a rischio di leziosità, accompagnato dal solito gran lavoro con gli attori: Alexander Payne resta autore discutibile, ma “Paradiso amaro” e “Nebraska” costituiscono comunque un passo avanti rispetto ai suoi film precedenti.

di Renato Venturelli

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