66° Festival di Cannes:
Venere in pelliccia


Subito dopo “Carnage”, Polanski torna a lavorare su un testo teatrale, prosciugandone gli elementi e concentrandosi in modo ancora maggiore sul lavoro purissimo di regia.

In questo caso c’è di mezzo la pièce di David Ives, e il film si svolge tutto all’interno di un teatro, con due soli personaggi. Da una parte il regista, interpretato da un Mathieu Amalric fisicamente molto polanskiano, ma più debole, borghesemente irrigidito e senza teppismo. Dall’altra Emmanuelle Seigner, nel ruolo dell’attrice che si presenta fuori tempo massimo per un’audizione a una versione teatrale della “Venere in pelliccia” di Sacher-Masoch, mettendo subito in mostra la sua natura travolgente.

Lui è testardamente chiuso nel suo piccolo potere di autore del testo e regista, lei irrompe con una vitalità apparentemente volgare, tutta incentrata sulla sua fisicità debordante, ma attraverso un gioco continuo di trasformazioni dimostra di saper padroneggiare perfettamente i ruoli della scena.

Probabile che Polanski abbia deciso di realizzare “Venere in pelliccia” anche per esaltare la moglie Emmanuelle Seigner. Ma il film è soprattutto una raffinata riflessione sul teatro, il cinema e la regia condotta con ironia e divertimento. Dai rapporti di gender a quelli di potere e di scena, i temi in ballo vengono tutti affrontati, resi espliciti, svuotati e quindi rovesciati, in un gioco continuo che ci riporta sempre e comunque alla centralità della scena e del set. Con tanto di invettiva di Thomas (Amalric) contro ogni tentativo di ridurre l’opera al semplicismo delle letture sociologiche ed antropologiche. Quasi un film-divertissement in cui Polanski può ripercorrere tutta la propria opera e i propri temi, totalmente libero anche per i costi limitati: aperto e chiuso dall’inquadratura frontale del piccolo teatro privato (e cadente) in cui lo spettatore viene introdotto.  (renato venturelli)

 

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