66° Festival di Cannes:
The immigrant


Era uno dei titoli più attesi del concorso, il film della possibile consacrazione di James Gray, dopo che proprio a Cannes “The Yards” (2000) era stato ignorato, “I padroni della notte” (2007) incredibilmente fischiato, e poi “Two Lovers” (2009) era stato fin troppo esaltato da chi aveva compreso fuori tempo massimo le toppate precedenti.

Dopo tanti drammi familiari profondamente radicati nelle diverse radici etniche, Gray passa qui a raccontarci le origini di tutto, rievocando l’impatto degli immigrati europei con la terra americana. Marion Cotillard è una ragazza che ai primi del Novecento arriva a New York, si vede subito bloccata a Ellis Island, separata dalla sorella malata di tubercolosi, privata della possibilità di avere il visto d’ingresso, isolata da un piano minuziosamente predisposto: quello attraverso cui lo sfruttatore Joaquim Phoenix corrompe i funzionari pubblici per mettere le mani sulle ragazze sole in arrivo, proponendosi come loro salvatore e trascinandole nella prostituzione. Il film segue poi il rapporto complesso che si stabilisce tra l’immigrata, il suo sfruttatore innamorato e il terzo uomo, un artista di varietà interpretato da Jeremy Renner.

Gray parla di un film profondamente legato alla sua storia familiare, “anche se questo non significa sia autobiografico” e definisce Ellis Island come “un luogo abitato da fantasmi, quelli di tutta la mia famiglia”. Ma ricorda anche di aver guardato molto al melodramma e a Puccini (“è un film che inventa il proprio genere, un’opera lirica trasposta al cinema”), come anche al Bresson del “Diario di un curato di campagna”, soprattutto per la scena della confessione. Manca però la caratteristica fondamentale di Gray: quella di partire da una drammaturgia complessa per parlare poi soprattutto con le immagini, con le luci e le ombre, col taglio delle inquadrature e i movimenti della macchina da presa. Il senso di prigionia che scaturisce delle sue immagini torna anche in questo film, ma all’interno di una ricostruzione visiva sontuosa e un po’ decorativa. Da rivedere: resta però l’impressione che il film più personale “di Gray” poteva essere l’altro, il “Blood Ties” diretto da Canet.  (renato venturelli)

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