Intervista a Pippo Delbono


Pippo Delbono è senza dubbio lo spirito più rivoluzionario del cinema italiano contemporaneo. Un artista-viaggiatore capace di provocazioni sconcertanti e squarci di poesia, di luci candide e ombre minacciose, il cui anarchismo visionario ha origini ben lontane dai set cinematografici.
Allievo di Pina Bausch, il regista e attore originario di Varazze è infatti il fautore di un teatro politico di carne e sangue osannato in tutta Europa, che gli ha permesso di avvicinarsi alla settima arte nel 2003 con Guerra (David di Donatello per il miglior documentario), realizzato tra le macerie della Palestina durante la tournée dell’omonimo spettacolo.
Da allora, Delbono ha inanellato una serie di film sospesi tra la ricerca documentaristica, la riflessione politica e la confessione privata. Un cinema di sperimentazione pura, il suo, in cui il canto e il lamento procedono sul filo della memoria (l’autobiografico Grido, del 2006), coagulandosi in soggettive mobilissime e sgranate (La paura, del 2009, è girato con un cellulare) e in una parola dichiaratamente poetica che punta all’indicibile (Amore Carne, datato 2011, è in parte dedicato alla malattia che lo ha colpito). Un cinema per “felici pochi”, estraneo – nonostante le presentazioni a Venezia e Locarno – ai principali circuiti distributivi, che tuttavia gli è valsa la venerazione vagamente timorosa riservata agli autore di culto, coerenti con sé stessi e con un linguaggio in costante e necessaria evoluzione.

Si riconosce nella definizione di “regista clandestino”?
Sì, mi piace la parola “clandestino”. Anche se forse sarebbe più corretto dire “regista fuori dai binari”. O “anarchico”, ancora meglio.

Un anarchico che dal teatro di ricerca è passato a un cinema ancor più sperimentale. Di solito i grandi teatranti, specie quando si muovono all’interno di una prospettiva diaristica come nel suo caso, preferiscono rivolgersi esclusivamente alla scrittura.
Anche perché normalmente il regista di teatro è innamorato della pièce, delle parole. Il mio teatro invece si rifà ad altre forme di linguaggio, all’immagine e alla musica. Quindi penso al cinema soprattutto come a una ricerca sullo sguardo, un guardare le cose da altri punti di vista. Il problema dell’artista è sempre quello di trovare la verità: naturalmente non la si trova mai, però è importante non dimenticare il percorso di ricerca. Cambiando punto di vista si riesce certe volte a cogliere degli squarci di questa verità impossibile.

Mi sembra che però sia sempre una questione di punti di vista … Anche a teatro. Forse, a cambiare, è soprattutto il rapporto tra ciò che lei propone e come lo spettatore è chiamato a fruirlo.
Cambiando punto di vista a teatro vedi verità diverse, vedi dei particolari di cui altrimenti non ti accorgeresti. Io ho realizzato il film di un mio spettacolo, Questo buio feroce, e ricordo molto bene di quando la signora che si era occupata dei sottotitoli per i festival esteri venne a teatro a vedere la rappresentazione dal vivo per la prima volta. Mi disse che il film le era piaciuto di più perché lì io l’avevo guidata nello sguardo, le avevo fatto “vedere” cosa guardare, mentre a teatro si era sentita completamente persa. Questo è un punto importante: al cinema tu segui uno sguardo, e persino un tuo stesso spettacolo, ripreso con un pensiero cinematografico, può rivelarti dei particolari che in una sala teatrale non vedi. Il teatro è un rito collettivo, mentre il cinema ti permette forse di entrare di più nell’essere umano.

Non sono differenze da poco, credo. A teatro lei guida la rappresentazione dall’interno, quasi kantorianamente, e costringe lo spettatore a una visione frontale. Al cinema, invece, lei è spesso fuori dall’immagine e il pubblico segue il film attraverso i suoi occhi, in soggettiva.
Infatti, quando faccio i miei film, ho sempre meno voglia di esserci. In Amore Carne non ci sono quasi più … Mi si vede un po’, ma in realtà sono sempre e solo i miei occhi che guardano. I piccoli mezzi che uso per riprendere hanno la straordinaria capacità di sostituirsi proprio a loro. Nel quotidiano della vita passiamo, osserviamo con poca attenzione e siamo molto spesso morti nello sguardo, mentre vedo che quando giro con la camera, con la macchina fotografica o con il cellulare l’occhio si apre, diventa attento a cose che altrimenti passerebbero inosservate.

Sono mezzi che le permettono di essere più libero e di filmare in maniera quasi impressionistica. Mi sembra che il rapporto tra l’agilità nella ripresa e il tipo di narrazione cinematografica frammentata che persegue sia molto forte. Il suo è un cinema di riflessioni e suggestioni sparse, in larga parte.
Sì, perché nel mio cinema – come nel mio teatro, e forse anche di più – il racconto diventa viaggio. Il cinema non è l’attraversamento di un deserto: è un viaggio sulle montagne russe, con dei passaggi, degli avvenimenti inaspettati, dei colpi di scena, dei ritorni, dei fili che si incrociano. Mi piace molto il restare aperto, il tentare di trovare le casualità che avvengono tra le cose, e che noi spesso non vediamo perché siamo offuscati, perché viviamo in un mondo in cui tutto è vero e tutto è falso. Tu prendi a caso dal reale, e poi scopri che nella casualità in fondo c’è una narrazione.

Ma cercare la verità e il mistero nella casualità implica comunque, da parte sua, un certo grado di manipolazione. Il cinema è anche questo, non si può scappare.
Mah … Io non sono sempre convintissimo di quello che faccio: razionalmente spesso non mi rendo bene conto. Dipende dai materiali che ti scegli. Non vado più in giro a riprendere con il mio cellulare o con la camera, per non disperdermi. All’inizio della mia carriera giravo con delle Super VHS e filmavo di tutto, poi mi trovavo con ore e ore di immagini che non ho neanche più rivisto – un giorno, magari. Adesso devo portarmi dietro la necessità, anche solo inconscia, di raccontare qualcosa.

E come vive la difficoltà oggettiva di far arrivare, almeno in Italia, questa sua ricerca estetica a un pubblico più vasto, nonché tutti i problemi produttivi e distributivi che il cinema comporta?
Probabilmente mi aiuta il fatto di avere una storia molto consolidata a teatro. Questo mi permette di agire da una posizione di calma maggiore rispetto, per esempio, a chi fa solo cinema, e di essere più libero. Più libero e più rompiballe. Ma non tanto per me – i successi personali mi interessano fino a un certo punto – perché, alla fine, quello che dà un senso sociale e politico è provare a fare una rivoluzione che contamini anche l’ambiente intorno. Mi piace pensare che puoi cambiare delle cose intorno a te.

Questo significa che i suoi film sono atti politici?
Sì, totalmente. Spirituali, anche … E poetici. Non si possono dividere poesia e politica l’una dall’altra.

Una poesia ottenuta dalla giustapposizione di elementi eterogenei. Attraverso immagini e parole spesso in contrasto lei infatti cerca di aprire il cinema a temi di enorme portata come la Vita, l’Amore o la Morte, e in maniera molto diretta, senza mediazioni narrative.
Sì, è giusto. Ma naturalmente quello che tu vedi da spettatore non è qualcosa a cui io – creatore – voglio dare un nome e un cognome. Non mi siedo a tavolino pensando che il mio film sarà sull’Amore in particolare, o su altro … Anche se poi però alla fine vedo che è così. L’arte è un questionarsi sul senso del vivere: perché nasciamo? perché moriamo? perché soffriamo? Sono tutte domande che ci danno il senso di essere artisti. L’arte si fa per andare a sondare le zone che non si conoscono e non si capiscono, sennò si fanno dei trattati, della saggistica. Ed è per questo che mi piace trovare i fili nella casualità, perché si creano delle sceneggiature nuove, che non sono guidate.

Perciò il cinema è una ricerca che parte da frammenti, e non un dire qualcosa di definitivo partendo da una certezza assoluta?
Parti da dei frammenti e provi a vedere come questi si intersecano. Cose che apparentemente non hanno alcuna relazione tra loro possono rivelare un legame, un senso che noi perdiamo di vista ma che c’è. Quindi cambia anche il colore: la morte è drammatica, però può essere anche divertente. Penso a quei film americani in cui muoiono tutti: mille morti in mille modi, ma alla fine non muore davvero nessuno. Tu esci e non c’è stato nemmeno un morto. Nemmeno un morto vero. Terribile, no? Eppure muoiono tutti … Io invece voglio andarci, sul morire.

E il fatto che lei lo faccia attraverso sé stesso?
E’ il modo più sincero. Parlando di te parli del mondo: il tuo privato diventa politico. Riflettendo sulla tua morte, o su quella delle persone che ti stanno vicine, puoi riflettere sulla Morte. Senza però andare sull’emotività: il cinema non deve farti commuovere, ma deve avvicinarti alla verità dell’esistere – cosa molto diversa.

Il contrasto tra emotività ed emozione nuda e cruda, diciamo.
L’emotività è in un colore: piango perché muoio, piango perché sono triste, rido perché sono contento. L’emozione è invece un qualcosa che ha in sé delle contraddizioni, è una luce che appare in mezzo al buio, è una leggerezza che si rivela nella pesantezza.

Ma affrontando tutto questo, non ha l’impressione che il suo cinema – come il resto della sua arte – diventi anche una sorta di auto-esorcismo più o meno inconsapevole?
Sì, probabilmente sì … Ho letto che in Francia ci sono delle persone che si sono suicidate perché avevano paura di morire. Esiste quindi un tipo di suicida che si toglie la vita perché ha paura della morte … Io ricordo uno spettacolo di Pina Bausch, 1980. Sono tutti sul palco e a un certo punto ci si chiede di che cosa si ha paura, e una dice “dell’amore”. La scena più bella che ho mai visto a teatro, straordinaria. E forse il senso è quello: parli delle cose di cui hai paura in un film o in uno spettacolo teatrale per cercare di vincerle.

Per vincerle o per allontanarle.
Per guardarle in faccia. Non le puoi vincere e non te ne puoi allontanare, ma bisogna che le guardi in faccia. E’ già un passo importante.

Massimo Lechi

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