BLANCANIEVES


Candidato all’Oscar dalla Spagna come “miglior film straniero”, Blancanieves di Pablo Berger è stato presentato al 30° Torino Film Festival per la sezione “Festa mobile”, il fuori concorso della manifestazione.
L’opera ambienta la fiaba Biancaneve nel mondo della corrida, in cui i punti focali della vicenda si svolgono tra ville, stadi sportivi e barraconi, mentre molti personaggi importanti (il padre, i sette nani e, a un certo punto, persino Biancaneve) sono dei famosi e bravi toreros.
L’aspetto maggiormente interessante del film non è tanto la sua originale rivisitazione della fiaba, quanto il fatto che sia muto (musica a parte) e in bianco e nero, proprio alla maniera di The Artist, a cui è stato non a caso paragonato.
Attenzione, però, i due lavori – nonostante le apparenze – hanno ben poco in comune. Se, infatti, l’opera di Hazanavicius omaggia e in qualche modo “imita” il cinema muto – soprattutto quello americano -, la fatica di Berger ne è una rivisitazione in chiave volutamente “trash”.
Quello del regista spagnolo è un film che ha elementi narrativi post-moderni, sgangherati e trasgressivi, i quali potrebbero ricordare alcuni divertiti e divertenti film di Russ Meyer, i primi Almodovar o l’ultima fatica di Jules Stewart K-11 (anch’esso presentato al Torino Film Festival), basti pensare ad esempio a personaggi come quello della matrigna sadomaso, dell’autista schiavo e del nano transessuale, figure che vengono inserite con una certa dose d’ironia e d’autoironia.
Il tutto presentato inoltre con dei toni sempre eccessivi e sopra le righe.
Anche se quest’ultimo aspetto non è una vera e propria un’anomalia in quanto sia le fiabe che alcuni melodrammi muti hanno toni talvolta eccessivi, nell’opera di Berger certe scene risultano così esaltate da essere davvero poco credibili: ad esempio, le cattiverie e le umiliazioni che Biancaneve subisce da parte di una troppo perfida matrigna non ricordano tanto le fiabe, i romanzi di Dickens o i melodrammi cinematografici, quanto certe telenovelas sud americane e alcuni film di Alfonso Arau.

Tali aspetti sono però inseriti in una confezione che ricalca, almeno a livello generale, un tipo di cinema muto suntuoso, elegante e a tratti persino intellettuale e sperimentale, che ha i suoi riferimenti nei migliori registi degli anni ’10 e ‘20 (Ejzenstejn, von Stroheim, Griffith, ecc.).
È proprio quest’ibrido tra alto e “basso”, tra cinema classico e cinema moderno, tra omaggi autoriali e riferimenti alla serie-b a rendere interessante il film, anche se il risultato finale non è del tutto positivo.
Infatti, Blancanieves risulta un’opera a tratti piuttosto insopportabile, non solo perché i mix prima citato non sempre è riuscito, ma soprattutto in quanto alcune scelte registiche come l’uso ingombrante delle musiche e alcune sovrimpressioni fuori luogo rischiano di far cadere certe scene nel cattivo gusto e nel ridicolo involontario.
Ma al di là dei giudizi qualitativi, a Berges va dato il merito di avere avuto il coraggio di osare e sperimentare, di realizzare un’operazione tutt’altro che banale e scontata, rischiando persino di essere accusato di furbizia per aver lavorato a qualcosa di così apparentemente simile all’acclamato The Artist, da cui invece è profondamente diverso.

(di Juri Saitta)

Postato in 30° Torino Film Festival, Festival.

I commenti sono chiusi.