“Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno” di Christopher Nolan sarà una conferma dei limiti del suo cinema?

christopher nolanChristopher Nolan è esattamente il tipo di regista che a un certo tipo di critica mancava, diciamo l’altro versante del misticismo settario di cui beneficia Nicholas Winding Refn: il feticcio dell’autore con la maiuscola ben calato nei meandri dell’industria. Il regista in grado di sfornare esattamente il tipo di cinema desiderato dai multiplex che nel farlo, però, si ammanta dell’aura della cultura, ossia di una presunta differenza (cosa che a Michael Bay non interessa minimamente, visto che fa un cinema provocatoriamente “intellettuale”…).

Oscillando costantemente fra la tentazione di replicare le strutture di pensiero di Kubrick e l’eleganza scenografica del migliore Ridley Scott, Nolan riesce paradossalmente nell’impresa di dare forma a un’idea di cinema meramente simulacrale. Lo spettacolo è, infatti, esibito sempre come un senso di colpa del cinema, e pertanto reso inerte, bloccato, mentre il presunto discorso che dovrebbe reggerlo viene “spettacolarizzato” per timore d’essere incompreso. In questo senso Nolan, nel posizionarsi in questa sua dimensione interrotta, ha creato un corpus esemplare per comprendere i sentieri intrapresi dalla critica più recente che non esita a conferire l’appellativo di maestro a Nolan.

Il film che ha sancito questo abbraccio è stato, ovviamente, Inception, film che teoricamente dovrebbe riflettere l’immagine rizomatica del mondo della comunicazione contemporaneo, inteso come specchio del nostro cervello, ossia della sua natura labirintica, piranesiana, ma che di fatto si limita a una sorta di illustrazione meccanica del principio autoritario del narratore onnisciente al quale, però, una volta esaurite le possibilità offerte dal menù principale di navigazione, viene a mancare anche la possibilità di riflettere filmicamente su questo suo intoppo, chiamiamolo, diegetico. Eppure è proprio questa paradossale riduzione di complessità alla base del cinema di Nolan che affascina un certo pensiero critico che nella limitata visione delle cose del regista trova esemplificata l’idea di un mondo sempre più calato nelle forme e strutture di approccio videoludico autoreferenziale.
Laddove Kubrick creava meccanismi mentali simili ad organismi viventi che rimandavano l’immagine dell’autosufficienza del cinema, Nolan, non comprendendo che al fondo del cinema kubrickiano agisce una violentissima hybris (possa piacere o meno) che ambisce a essere l’immagine del cervello che l’ha posta in essere, prende la scorciatoia della sceneggiatura (esemplare il caso di The Prestige) per creare delle inception che in realtà non partono mai, restando nell’alveo della prestidigitazione filmica. Rispetto a Scott, gli manca il gusto dell’inutilità dell’abbellimento scenografico, la gratuità dell’effetto decorativo che rende interessanti persino i film più deboli del regista di Blade Runner.
I limiti del cinema nolaniano emergono soprattutto nei film dedicati al ciclo di Batman, che sta per concludersi con Il cavaliere oscuro – Il ritorno. Il capostipite della trilogia, Batman Begins, è esemplare per inquadrare la plumbea monumentalità del cineasta inglese. Calato in brume post-industriali nerissime e sbuffi di vapore, il film, rispetto alla leggerezza aerea dei fumetti, persino di quelli di Frank Miller, primo artefice della resurrezione della creazione di Bob Kane, si muove con una pesantezza che raggiunge l’apogeo nel finale dove è evidente lo smarrimento di un cineasta di fronte alla propria macchina spettacolare.

Le cose migliorano lievemente nel secondo episodio nel quale Heath Ledger incarna un Joker diventato immediatamente un’icona, complice anche la sua prematura scomparsa (come nel caso di Brandon Lee), mentre Aaron Eckhart porta sullo schermo un Harvey Dent davvero memorabile.
Il problema del Batman secondo Nolan, che gode peraltro dell’approvazione di Grant Morrisson, il geniale e visionario sceneggiatore scozzese che ha letteralmente reinventato la mitologia del cavaliere oscuro, sta nella sua natura rigidamente macchinica, priva sia delle sfumature paranormali che si ritrovano in volumi come Batman R.I.P. e nella serie pop Batman and Robin. A fronte dell’incedere difficile dei film nolaniani, non si può fare a meno di immaginare cosa potrebbe fare un vero autore di cinema come Michael Bay, il fantasma nella macchina del post-cinema, se si trovasse fra le mani una materia fertile come Batman. Curiosità destinata a restare inevasa, probabilmente.

Eppure, un buon film Nolan l’ha realizzato: Insomnia, remake dell’omonimo thriller norvegese nel quale è possibile rinvenire il tocco soderberghiano (che ha collaborato alla produzione). E se Memento è il classico giochino decostruzionista ai danni del noir fuori tempo massimo, come se Robert Altman non avesse mai diretto Il lungo addio, Insomnia riesce a mettere in scena un mondo sospeso e ovattato, giocando sul rovesciamento obbligato del mondo delle ombre del noir in un inferno silenzioso dove la luce regna sovrana. Ecco: a contatto con una storia minimale, paradossalmente dentro gli schemi di un cinema dichiaratamente meno d’autore, Nolan mette da parte spocchie e idiosincrasie formali e realizza un film convincente e sfaccettato. Un episodio isolato, al momento, nel corpo di una filmografia, che ai nostri occhi pare esemplificare i limiti di un cinema spettacolare schizofrenicamente scisso fra le esigenze produttive di una macchina spettacolare in perenne rivoluzione e le ambizioni di una visione poetica insufficiente a reggere l’urto della mutazione del cinema stesso.

(di Giona A. Nazzaro)

Postato in Numero 98, Registi.

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