Uomini sull’orlo di una crisi di nervi. Comunque senza casa e senza più famiglia. Tre esemplari dell’epoca della crisi. Il nuovo film di Carlo Verdone, “Posti in piedi in Paradiso”, continua a pedinare gli italiani, a guardarli in faccia e ad esprimere una sua eterodossa diagnosi. Lo scricchiolio dei sentimenti e della vita quotidiana va oltre i tic, le manie, le fobie e le cialtronerie. E’ strutturale. Un trittico allo sbando: Ulisse (Verdone) è stato un discografico di successo, ora non solo vende oggetti da memorabilia su Ebay, ma abita anche nel retro del suo negozio di prodotti in vinile; Domenico (Marco Giallini) non solo poggia le ossa sulla barca di un amico ma per mantenere due famiglie si trasforma in gigolo per ricche ma vecchie; Fulvio (Pierfrancesco Favino) per campare al giornale si è dovuto convertire dalla critica cinematografica al gossip e pure lui deve adattarsi ad un “rifugio” offerto da un convitto religioso. Cacciati dalle consorti per qualche peccato di troppo e con il conto in banca azzerato dagli alimenti sono destinati a condividere lo stesso appartamento, mentre sulla scena si affaccia una strana cardiologa (Micaela Ramazzotti) con problemi al cuore, ma nel senso degli affetti. Forse saranno i figli a dare una nuova prospettiva al malessere che assedia gli sgangherati genitori.
Senza una diretta visione (al momento in cui scrivo) non si può tracciare un diagramma esatto dello stato delle cose e di salute del tocco alla Verdone. Ma il tema e i suoi annunciati sviluppi sembrano garantire una coerenza con il Verdone lontano dalla multimimesi interpretativa. Non più un Fregoli di straordinario impatto satirico, ma un umorista che della commedia ha un concetto da pratiche alte, fondato su una tradizione e su una pratica ormai cancellate da pseudo autori che hanno come modello narrativo esclusivamente i toni e i modi della fiction televisiva. Verdone ha ancora e sempre voglia di guardare il prossimo per scoprire e capire dove sta andando quell’italiano che, per esempio, Risi e Monicelli avevano scorticato, pelle dopo pelle, dimostrando che una cipolla resta una cipolla anche se crede di aver imparato il miracolo dell’arte di arrangiarsi. I personaggi verdoniani sono il riflesso di un’osservazione ostinata, carpita, magari, ogni mattina dal punto di osservazione di un angolo di farmacia in cui il regista si reca per misurare e tenere a bada pressione e paure. Il filo della nevrosi è teso e , paradossalmente, anche pieno di curve e sfilacciamenti: resta impervio fissare la fotografia di “creature” che assomigliano ad “alieni” rispetto a quelle mutazioni degli anni Cinquanta e Sessanta non così spiazzanti da fare impazzire un antropologo.
Ma il cinema di Verdone non è mai così presuntuoso da sfogliare la margherita del sociologismo e dello psicologismo tagliati con l’accetta. Come lo struzzo di un celebre finale di Bunuel tiene la testa fuori dalla sabbia, , scruta e poi inventa la sua analisi spicciola che, da sempre, ha anche la famiglia come crogiolo di inquietudini e complessi dove il nido di vipere morde le chiappe di ogni ingenuo eversore. E ci sono i figli come verifica di quanto è stato e di quanto potrebbe essere oltre la dabbenaggini, le viltà e gli errori dei padri. “Posti in piedi in Paradiso” dovrebbe porre una nuova tessera tra generazioni, a confronto tra il vacuo del passato e la speranza di un futuro che non si ripeta per impronta genetica.
Che lo sguardo di Carlo Verdone sia, poi, secondo una frettolosa sentenza, buonista, è un’errata classificazione che confonde il rifiuto del cinismo con la mancanza di cattiveria: è la malinconia soffusa e irrimediabile che fa da filtro ad una crudeltà soffice ma che, in alcuni capitoli (come in “Gallo Cedrone”), si lascia implodere, mettendo in un angolo la “compassione” (sorridente) e qualsiasi assoluzione. La verità è che gli eroi stralunati di Verdone, rispetto alla galleria di “mostri” allestita dalla commedia italiana dell’età dell’oro, hanno conservato il gene della cialtroneria e della megalomania, ma devono fare i conti con le proprie insicurezze, con l’ansia di apparire senza essere, con il timore di restare soli e in compagnia di se stessi. Ecco, “Posti in piedi in Paradiso” sembra proprio ragionare ancora sul terrore di essere soli con i propri fallimenti e con l’impossibilità di una normalità di rapporti che faccia da scudo al caos esterno. Tre uomini in crisi e durante la crisi che si agitano per non smarrire completamente l’orientamento già precario di una navigazione a vista, in balia di un destino che li prende a calci nel sedere. Cronaca ironica di una sconfitta che sconvolge un panorama trapunto di rovine, di sogni infranti e di illusioni allestite con la cartapesta dei difetti generazionali.
Ma per Carlo Verdone non sarà un marzo da consumarsi solo sullo schermo. C’è la libreria come replica alle immagini.Un “romanzo autobiografico” arriverà sui banconi negli stessi giorni del film. Titolo: “La casa sopra i portici” (Bompiani). Una casa grande a Roma nei pressi di Ponte Sisto, la casa dell’infanzia, la casa della famiglia, la casa di papà Mario, la cui morte ha riconsegnato al Vaticano la proprietà dello stabile con portici di LungoTevere dei Vallati. In questo spazio non claustrofobico, Verdone muove alla ricerca del tempo perduto. Alla sua maniera, raccontando tra sorrisi e commozione la storia di una casa, di un papà e di una mamma adorata, Rossana Schiavina, alla quale l’appartamento era passato per diritto di famiglia. In nome del padre e della madre. Un po’ per un pizzico di melanconia, un po’ per tanto affetto.
(di Natalino Bruzzone)