Intervista a Jason Reitman regista di “Young Adult”

jason reitmanDopo Nick Naylor, il lobbysta dell’industria tabacco di Thank You for Smoking, 2005, l’adolescente incinta e new romantic di Juno (2007) e Bingham, lo spregiudicato tagliatore di teste di Tra le nuvole (2008), in Young Adult al centro del quadro c’è Mavis Gray, una ghost writer psicotica che torna per una celebrazione a Mercury, nel Minnesota, la piccola cittadina che un tempo l’aveva eletta reginetta del liceo. L’homecoming, invece di redimerla dai propri fallimenti sentimentali e lavorativi, la consegna a una serie di regressioni, meschinerie e perfidie perfino peggiori. Sostenuto dai dialoghi sagaci di Diablo Cody – già Oscar per la sceneggiatura di Juno – e da una mostruosa Charlize Theron, Reitman confeziona il ritratto vivido di un’America profonda e grottesca, una specie di purgatorio di “mezzi” adulti, persi in un’infinita teoria di megastore, in cui trionfano malessere, sogni avariati e conformismo. Film di personaggi ben scritto, ottimamente recitato, iperrealistico e dai chiari riverberi autobiografici – i titoli di testa e la splendida soundtrack anni novanta hanno il calore della playlist personale – Young Adult corre un solo rischio, quello di innamorarsi troppo della propria intelligenza e di osare una cattiveria più “retorica”
che reale.

Ancora una volta Young Adult ruota intorno ad un personaggio centrale controverso. Come mai nei suoi film predilige sempre dei tipi umani moralmente borderline?
« Mi piacciono le persone complicate, le persone gentili sono noiose da raccontare. Mavie è peggio di un’inondazione, vuole essere disperatamente amata e cerca di raggiungere l’obiettivo nei modi più sbagliati e compiendo una serie di azioni piuttosto sgradevoli. Ma credo che sia per quello che mi piace. Ci sono molte persone che non apprezzano i miei film, perché pensano che i miei personaggi siano freddi e calcolati. Ma ognuno di loro è un’opera personale, tutti hanno degli echi emotivamente autobiografici.
Ho sempre apprezzato i registi che fanno film di questo tipo e, nei miei, cerco sempre di esplorare un tema interessante o un dilemma morale attraverso un personaggio significativo; e di esporre, almeno un po’, me stesso nel film. Riconosco qualcosa di me in Ryan di Tra le nuvole, in Nick di Thank You For Smoking e ovviamente anche in Mavis. Anche se dietro la scrittura e la storia di Young Adult c’è molto di Diablo, se non sentissi il personaggio vibrare nella mia testa o non avessi vissuto esperienze simili, per me sarebbe impossibile da metter in scena. Solo una teoria senza vita ».

Mi ha molto incuriosito una sua definizione del mestiere del regista: secondo le sue parole non si tratterebbe di un lavoro creativo ma di un lavoro “reazionario”. Ci può spiegare cosa intende e cosa ci sarebbe di “reazionario” in Young Adult?
« Si trattava di una lezione universitaria. Volevo ridimensionare l’alone sacrale della parola “creazione” e dare una definizione più pragmatica del lavoro del regista. Reagire alle cose, da qui il termine reazionario”, è il momento numero uno del mio lavoro. Se in me scatta una reazione la prima volta che leggo una sceneggiatura, un articolo o ho un’idea per un film, da quell’istante il processo decolla. La prontezza con cui ho risposto alla proposta di Diablo per Young Adult, mi ha dato la misura di quanto fosse necessario per me dirigere il film. E poi ogni atto del lavoro preparatorio scatta da una reazione: a un dialogo, una performance, un provino, un mal di testa, un pezzo di scenografia o un costume. E la domanda che mi pongo ogni volta, conscia o inconscia che sia, non è mai: “Sono ispirato o no rispetto a quello che vedo?”, ma: “Mi sembra autentico?”. Dalla prima reazione si crea una linea di tensione che diventa la sostanza del pitch del film. Un regista, come prima dote, deve sviluppare un occhio e un orecchio personali per chiedersi: “Questa performance è in tono o no? E questa location? E se non lo è, perché? C’è troppa luce? O la palette dei colori non è corretta?”. Questo modo di procedere mi sostiene per tutto il processo fino alle decisioni finali, quando devo correggere il colore o impostare il mix. E così è stato anche in Young Adult».

Un’altra delle caratteristiche del suo cinema è la grande cura con cui riesce a incastrare gli attori, anche celebri, nei personaggi; la Mavis interpretata della Theron è un personaggio memorabile.
« Sì, una “gran figlia di puttana”, come l’ha definita Charlize. La caratteristica maggiore di Charlize come attrice è il coraggio, ha avuto un coraggio pazzesco nel fare Monster, ma è stata impavida in molti altri dei suoi ruoli. Nella maggior parte dei personaggi interpretati da un bravo attore ti accorgi che c’è sempre qualcosa nel mezzo, tra lui e la sua performance. Lo capisci dall’accento, dal trucco o da altri dettagli: questo è un personaggio, l’attore si è servito di un elemento del mestiere, anche straordinario,
per tenerlo alla giusta distanza. Charlize invece è l’unica attrice che non mette mai filtri tra sé e il suo personaggio e sapevo che avrebbe fatto altrettanto con Mavis ».

Young Adult ha un finale spiazzante – il personaggio non si redime – ma è una caratteristica comune a tutti i suoi film quella di “riaprire” la storia e sospendere il giudizio.
« Mi piacciono i film che mettono a disagio lo spettatore, i film horror per esempio mettono in difficoltà chi li guarda, almeno quelli più riusciti, e credo che Young Adult sia in qualche modo un film horror. I miei film sono commedie drammatiche e possono causare disagio perché danno una descrizione molto realistica dei personaggi. Mi piace l’effetto specchio di un film, quando mette in scena delle persone in cui è possibile non solo identificarsi ma scoprire i riflessi meno encomiabili di se stessi. Alcuni film mettono in scena la parte migliore dell’umanità, altri la parte peggiore, i miei film prediligono quella peggiore, che io reputo sia una porzione viva e reale della complessità dell’essere umano. Sono contento quando lo spettatore lascia il cinema incerto su quello che ha visto ed è spiazzato dalla mancanza di un happy-end. O forse anche di un semplice finale. Negli anni settanta era normale fare dei film “aperti”, sospesi, e non so perché ci siamo fermati. Per fortuna, fino a qui, ho trovato persone che non hanno mai avuto nulla da ridire sul mio modo di chiudere un film».

(di Roberto Pisoni)

Postato in Interviste, Numero 97.

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