La prolificità e la velocità di realizzazione di Steven Soderbergh è pari solo a quella di Frank Zappa, che però faceva dischi e suonava la chitarra. Soderbergh, partito con il successo di Sesso, bugie e videotape, dopo essere stato acclamato da Wim Wenders nel corso della premiazione cannense come “una speranza per il futuro del cinema”, durante la prima parte della sua carriera, si è mantenuto, tutto sommato, fedele al ritratto che di lui ne dava la stampa.
Cineasta indipendente, velleità autoriali, propensione verso argomenti alti, nobilitanti (il caso esemplare di Delitti e segreti ispirato a Kafka). Non tutto fila liscio, però. Soderbergh è afflitto, e ne è molto contento, da un’evidente isteria del linguaggio che si manifesta pienamente in Gray’s Anatomy e, soprattutto, Schizopolis, entrambi del 1996 e programmaticamente sopra e sotto le righe. Una dichiarazione di guerra al cinema ben fatto e all’ossequio della norma narrativa così violenta che sembra porre fine in anticipo alla carriera di un promettente regista che si era fatto notare per la prima volta nel 1985 con l’ottimo documentario musicale Yes: 9012 Live. Nell’arco di undici anni Soderbergh sembra avere percorso tutto l’arco delle possibilità concesse a un cineasta indipendente consacrato prematuramente come un miracolo. Ma il regista nato ad Atlanta nel 1963 è solo all’inizio. Nella testa di Soderbergh, non lo sappiamo per certo, proviamo a immaginarlo, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, si fa largo una strategia: piuttosto che portare se stesso, con il peso delle sue idiosincrasie nel cinema hollywoodiano, lui porta Hollywood nel suo cinema. Sembra una resa. È l’inizio di una guerriglia cinematografica entusiasmante che lungo la strada gli permette di stringere una serie di amicizie e complicità importantissime di cui quella con George Clooney è solo la più evidente.
Paradossalmente è in questa seconda parte di carriera, la divisione è ovviamente arbitraria, che Steven Soderbergh diventa davvero appassionante, anche se in molti faticano a tenere il passo (compreso chi scrive che comunque lo sopportavo poco pure prima e che sarà folgorato tardivamente sulla strada di Ocean’s 13). Soderbergh è come se avesse compreso un paio di cose fondamentali (da cui deriva il paragone con la prolificità zappiana): 1) non fermarsi mai tra un film e l’altro. Ma a differenza di Woody Allen che è da 22 anni che fa sempre lo stesso film, Soderbergh non solo non sta mai fermo ma, ed ecco la sua strategia guerrigliera, inizia a cambiare in continuazione al riparo della sua rispettabilità hollywoodiana che funziona a doppio senso. Hollywood gli fanno fare quello che vuole perché lui è un “autore”; fuori, non solo continua a fare esattamente quello che vuole, ma lo fa con una convinzione esilarante, quella di un regista hollywoodiano che improvvisa una jam session. E i risultati pagano. Ne sono prova capolavori Bubble e The Girlfriend Experience.
Ogni film è l’occasione per sperimentare un nuovo approccio, rischiare, mettersi in gioco o semplicemente, giocare. Soderbergh può contare sull’appoggio di molti tra i divi più importanti di Hollywood che, a differenza dei registi, sono infinitamente più propensi a mettersi in gioco di quanto il sistema non permetta loro. E così, conservando un’inconfondibile e paradossale identità camaleontica, proprio come Zappa, inizia a suonare (ahem… filmare…) su tutti gli spartiti disponibili. E, come Robert Altman, riesce a diventare il cineasta hollywoodiano più lontano da Hollywood, pur conservando una sua inconfondibile americanità. E così, con un piccolo aiuto da parte dei suoi amici Brad Pitt, Julia Roberts, Matt Damon, Soderbergh realizza film come Solaris (senz’altro il suo capolavoro indiscusso), Erin Brockovich, la trilogia di Ocean il cui segmento centrale è probabilmente il metafilm più vertiginoso mai realizzato a Hollwood. Tutto questo viene messo in gioco per realizzare Che!, il dittico sul guerrigliero argentino, braccio destro di Fidel Castro. Con il Che s’era bruciato le mani un grande come Richard Fleischer, ma Soderbergh mette in gioco tutto e vince tutto. Per altri cineasti sfidare così appartemente il sistema avrebbe significato la fine ma lui subito dopo realizza un film godardiano come The Girlfriend Experience (con la diva hard Sasha Grey) e un thriller paranoico, schiettamente altmaniano, The Informant!. Insomma: invece del classico run for cover teorizzato da Alfred Hitchcock (ossia: se hai rischiato molto con il film precedente, corri ai ripari), Soderbergh alza il tiro.
Il successivo The Last Time I Saw Michael Gregg da noi non è mai arrivato (nonostante Cate Blanchett protagonista) e con Contagion dimostra di essere in grado di realizzare un film catastrofico da camera, con un cast impressionante, dire delle cose non banali su informazione, governi e medicina e al tempo stesso tenere incollato sulla sedia lo spettatore. Così’, in attesa del thriller al femminile Knockout, il nostro ha già in preproduzione altri due film e un altro in postproduzione.
Steven Soderbergh incarna oggi un tipo molto particolare di cineasta. Il regista embedded nel sistema, in grado di realizzare film a budget zero e allo stesso tempo di confezionare blockbuster politici ricorrendo a tutti i mezzi che Hollywood mette a disposizione. Tutto questo senza contare che Soderbergh è attivo anche come produttore e vanta più di una trentina di titoli al suo attivo. E non è un caso che la vera dimensione autoriale di Soderbergh sia venuta compiutamente alla luce dopo il suo passaggio a Hollywood, quando ha iniziato a giocare con Hollywood utilizzando le regole dell’industria come la migliore delle strategie mimetiche.
Probabilmente solo Steven Soderbergh può raccogliere il testimone di Robert Altman, oggi. Quello di un cinema visceralmente personale, strategico, aperto, contaminato e politico. Del maestro condivide, infatti, gli aspetti fondamentali: l’irrequietezza, l’urgenza politica, la grande sensibilità per il lavoro con gli attori e una percezione antimitologica della macchina dei sogni hollywoodiani.
Tutto questo senza avere smesso, anche per un solo giorno, di fare cinema.
(di Giona A. Nazzaro)