La vera separazione è quella che si è creata fra il pubblico, italiano e non, e il cinema di Steven Spielberg, non quella dell’ottimo film di Asghaf Farhadi. Presentato al Festival Internazionale del Film di Roma un giorno prima che uscisse nelle sale, Le avventure di Tintin: il segreto dell’Unicorno, è stato sbeffeggiato dai cosiddetti critici crossmediali che manco erano nati quando Fuga da New York stava nelle sale e disertato dal pubblico che evidentemente di fumetti sa solo sino all’ultimo Batman di Chris Nolan.
Insomma: con questi chiari di luna, Steven Spielberg diventa un regista da cenacolo cineclubbista e non da folle oceaniche dei multiplex. Infatti, nonostante l’esposizione mediatica, il nostro ha continuato con ostinazione a lavorare intorno alla sua poetica aggiornandola costantemente con le ultime tecnologie. Tant’è vero che Tintin lo si può a ragion veduta considerare come la quadratura spielberghiana del cerchio. Ricorrendo all’incompresa motion capture dell’amico Robert Zemeckis, Spielberg crea un film che è di fatto la reinvenzione dei classici avventurosi della Hollywood classica come Gunga Din di George Stevens.
Tutto l’immaginario delle avventure degli albi di Lee Falk e Alex Raymond, il sapore di imprese coloniali tese fra le due guerre, rivive nel film di Spielberg come un vortice di cinema al cubo, dove la tecnolgia digitale non è utilizzata per andare nella direzione di Michael Bay (purtroppo utilizzato sempre come termine di confronto negativo, ma ne riparliamo) ma per andare indietro. Come una torsione paramnestica, Spielberg finge di ricordare che il cinema dei Michael Curtiz che amava da adolescente fosse veloce e senza apparenti stacchi di montaggio come il suo Tintin e crea un puro movimento apolinneo. Ed è questo sortilegio a fare l’incanto del film di Spielberg, non la sua ineccepibile perfezione formale. Spielberg usa infatti tutto quanto ha a sua disposizione per creare la versione perfetta de I predatori dell’arca perduta. Tintin si mimetizza fra il consumo cinematografico fingendo di essergli omologo.
Il pubblico, però, non ci è cascato: ha capito che Spielberg smerciava del cinema vero, e ha preferito andare a vedere altra roba, non il cinema. Gli altri, i critici, hanno tratto le medesime conclusioni del pubblico. Ma loro non hanno alcun alibi per avere mancato uno Spielberg in forma smagliante. Per cui resta una domanda: che fare quando il piacere del cinema diventa di fatto un problema? Quando il piacere del cinema non si riesce più a vedere al… cinema? Solo Spielberg ci può salvare.
(di Giona A. Nazzaro)