Pupi Avati – Il giovanotto matto del cinema italiano


pupi avatiSe c’è un regista di cui i cinefili amano dire tutto il male del mondo questi è Pupi Avati. Per cui un ottimo film come Gli amici del Bar Margherita viene bollato come uno sterile esercizio senile mentre per This Must The Place di Paolo Sorrentino (esempio volutamente fazioso, lo ammettiamo) i medesimi si producono in torsioni dialettiche tesi a salvare il salvabile.

Ora non si tratta di contrapporre due registi diversissimi tra loro per puro spirito polemico (come ben sa chi abitualmente frequenta queste pagine) ma solo di evidenziare come su Avati la critica è come se avesse smesso di lavorare mentre su altri versanti ci si spende con una generosità assoluta. Cosa ancora più problematica, e che riguarda sempre una certa fascia di critici, l’attenzione con quale ancora oggi sono analizzate le opere dei Vanzina (o di Neri Parenti), che purtroppo hanno ormai da molti anni rinunciato a fare cinema (da quanto tempo i Vanzina non fanno film convincenti come Il cielo in una stanza o Il pranzo della domenica?).

Eppure non è lontanissimo il tempo quando anche riviste militanti come Cineforum (per fare un esempio) dedicavano ampie schede critiche a film come Le strelle nel fosso, Una gita scolastica, Impiegati, Festa di laurea e Noi tre. Probabilmente dopo Ultimo minuto il rapporto fra il regista e la critica si è incrinato. Forse questo distacco si è prodotto a causa di quella che superficialmente poteva sembrare una specie di eccessiva familiarità oppure perché Avati era/è riuscito nell’impresa, più unica che rara in Italia, di lavorare a ciclo continuo realizzando un film via l’altro, cosa che deve avere provocato una sorta di saturazione. Eppure è proprio questa continuità che Avati ha cercato con tanta determinazione a essere un segno forte delle stagioni più intense e interessanti del nostro cinema. Quando era possibile intavolare con un autore un dialogo costante senza dovere attendere anni tra un film e l’altro.

Inevitabile quindi che la qualità abbia potuto risentire di un fisiologico calo di tensione che magari era assente nella primissima fase della carriera del regista, però è altrettanto vero che lavori come Magnificat, Dichiarazioni d’amore, L’arcano incantatore, Il cuore altrove, La seconda notte di nozze e anche un film contraddittorio come I cavalieri che fecero l’impresa sono il segno di una vitalità artistica indomita in grado di rischiare e di mettersi in gioco. In questa prospettiva film non riusciti come Festival, La cena per farli conoscere o Ma quando arrivano le ragazze? possono essere considerati se non altro come l’espressione di una volontà di una poetica e di una pratica del cinema generosa che aspira a una dimensione autoriale e popolare al tempo stesso. Una poetica che prevede anche incidenti di percorso e non solo riuscite assolute. In questo senso è interessante notare come anche all’interno di un percorso consolidato ci siano delle fughe in avanti di matrice quasi sperimentali (se rapportate al complesso del lavoro del regista), testimoniate da film amari e incompresi come Il figlio più piccolo o Una sconfinata giovinezza.

Il primo opera una lettura molto cruda dell’erosione del tessuto solidale del nucleo familiare provocata dalla cultura del denaro e mette in scena una società che ha fallito con un gusto grottesco che rievoca certe crudeltà dei primissimi film avatiani. Senza contare certe aperture addirittura surreali. Il secondo, invece, se da un lato sembra un puro condensato del cinema del regista, dall’altro offre inquietudini che reinventano in maniera inedita la propensione gotica avatiana. Esemplari gli scorci infantili e magici dei flashback del protagonista che rievoca miracoli mai avvenuti intrecciati inesorabilmente con l’epifania della sessualità.
Ed è questa dimensione crepuscolare che si dilata per accogliere pulsioni apparentemente estranee al mondo evocato dal regista che va cercato il nocciolo irriducibile di una poetica sì provinciale e malinconica ma anche profondamente consapevole del proprio raggio d’azione.

In questo senso Avati, in un momento in cui la nostra cinematografia è costantemente riletta alla luce dei nomi dimenticati dalle storie ufficiali, rappresenta alla perfezione una certa idea di cinema italiano. Un’idea dove le storie degli individui e delle classi sociali cui appartengono sono collocate sullo sfondo di una società che nei film del regista emerge in forme complesse e contraddittorie (come evidenzia, appunto, Il figlio più piccolo, tra l’altro forse l’unico film in cui l’ottimo Nicola Nocella ha potuto mettere compiutamente in luce le sue qualità d’attore). Il tratto che unisce tutte queste anime della poetica avatiana si può individuare in una capacità affabulatoria generosa e rara in grado di spaziare dall’aneddotica alla riflessione con una sconcertante naturalezza senza per questo dimenticare la fulminante battuta al vetriolo. Ed è proprio questa felicità dell’affabulazione che si ritrova nei film più riusciti di Avati.

Da grande appassionato di jazz, dal quale si accetta eccezionalmente pure la distruzione critica del John Coltrane e Miles Davis elettrico, Avati racconta sempre con un gusto swingante da prima della rivoluzione che si trasmette con estrema facilità alla realizzazione stessa del film. L’errore di un certo approccio critico sta nel considerare questa felicità espressiva come una cosa “facile”, scontata, laddove è proprio all’interno di questa pratica che il regista riesce a ricavarsi degli angoli nei quali dolori e inquietudini sono affrontati con grande lucidità.

Oggi Pupi Avati riesce a passare dalla scrittura al set alla moviola come se lavorasse alla catena di montaggio del proprio immaginario. Nell’immagine di questa iperattività c’è il segno di una felicità che considera il lavoro come la ricompensa del proprio lavoro.

In questo senso, sì, è vero: Avati fa del cinema che viene da un altro mondo. Un mondo del cinema italiano che non esiste più. E dunque proprio per questo Pupi Avati è un regista sul quale ricominciare a riprendere a ragionare criticamente.

(di Giona A. Nazzaro)

Postato in Numero 95, Registi.

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