Ruggine – Memoria ed emarginazione


ruggineQuarantacinque anni, negli ultimi dieci dei quali ha girato quattro lungometraggi a soggetto (prima di Ruggine, I nostri anni, Nemmeno il destino e Pietro) e un documentario (Rata neci biti), Daniele Gaglianone è un torinese d’adozione che insegna Ingegneria del cinema e dei mezzi di comunicazione al Politecnico e un regista che persegue testardamente un’idea di cinema essenzialmente figurativo, ma non calligrafico, sotteso da una forte tensione etico-sociale, ma mai banalmente didascalico. I temi ricorrenti nei suoi film sono quelli della memoria e dell’emarginazione. Siano essi ex-partigiani (I nostri anni) o giovani sradicati (Nemmeno il destino), disadattati (Pietro) o ragazzini in una periferia in cui si aggira un mostro pedofilo (Ruggine), i personaggi di Gaglianone sono inesorabilmente condannati alla solitudine, interessanti non tanto per quello che dicono (pochissimo) o che fanno (sovente banale), ma per quel senso di male di vivere che inesorabilmente si portano dietro. In Ruggine, Gaglianone si trova per la prima volta a dirigere un cast composto di attori di primo piano del cinema (e del teatro) italiano, e indirettamente ne paga pegno. Negli anni Ottanta, all’estrema periferia torinese, vivono i figli di emigranti meridionali, descritti da Stefano Massaron nel romanzo da cui il film nasce. Ai margini di quei casermoni, tra gli scheletri arrugginiti delle automobili e di una vecchia cava, gli adolescenti hanno eletto il loro castello. Lì c’è il potere e c’è l’amore, ci sono i sogni e la paura. E, come s’addice alle favole, si concretizzerà ben presto anche l’orco, nell’aspetto sovente troppo sopra le righe di Filippo Timi. Costui è il nuovo medico condotto, tanto riverito dai genitori, quanto subito riconosciuto nella sua pericolosità sia dai bambini, sia dagli spettatori. Con pudore e senza leziosaggine, Gaglianone ricostruisce quel mondo con lo sguardo dell’infanzia: le sue immagini ne conservano tutto lo stupore e l’innocenza, ma sanno anche restituire la latente malvagità che solo gli adolescenti sanno avere. In questo sguardo c’è la componente migliore di Ruggine. Ma le ambizioni del film tendono ad andare oltre. Gaglianone, infatti, non vuole parlare solo della “ruggine” storico-esistenziale entro la quale quei piccoli protagonisti imparano a vivere; perché intende sottolineare anche come le esperienze della gioventù tendono ad “arrugginire” nell’età adulta. Da qui, la scelta di intrecciare, con una libertà che a volte rende faticoso seguirne lo sviluppo narrativo, la “favola” di quei bambini nel territorio dell’orco-pedofilo, con ciò che alcuni di loro sono diventati da grandi. Progetto legittimo, se però ci si fosse preoccupati di dar loro l’autonomia di autentici personaggi. Ma questo, in vero, non accade. Con la conseguenza che (indipendentemente dalla bravura e dall’impegno degli attori chiamati a interpretarli) il film sbanda, i personaggi diventano schematici e didascalici, il discorso sulla memoria e sull’emarginazione corre il rischio di far naufragare nella banalità quanto di universale e di umanamente misterioso era stato capace di suggerire nelle suggestive immagini di quel mondo infantile, dove fantasia e realtà riuscivano a fondersi in modo fluido.

(di Aldo Viganò)

Ruggine
(Italia, 2011)
Regia: Daniele Gaglianone – soggetto: dal romanzo omonimo di Stefano Massaron – Sceneggiatura: Daniele Gaglianone, Giaime Alonge, Alessandro Scippa – fotografia: Gerardo Gossi – musica: Evandro Fornasier, Walter Magri, Massimo Miride
Scenografia: Marta Maffucci – montaggio: Enrico Giovannone.

Interpreti: Filippo Timi (dottor Boldrini), Stefano Accorsi (Sandro adulto), Valerio Mastrandrea (Carmine adulto), Valeria Solarino (Cinzia adulta), Giampaolo Stella (Carmine bambino), Giuseppe Furlò (Sandro Bambino), Giulia Coccellato (Cinzia bambina).

Distribuzione: Fandango – durata: un’ora e 49 minuti

Postato in Numero 94, Recensioni, Recensioni di Aldo Viganò.

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