Il thriller secondo Pedro


pedro almodovarAlmodóvar e il genere: un idillio robusto e vitale che ci ha regalato alcuni dei momenti migliori del suo cinema. L’Almodrama, versione survoltata del melò, si è lasciato spesso contaminare da inserti noir, situazioni horror e vaghi intrighi polizieschi per innescare al meglio le ossessioni del regista manchego. Dopo le tinte algide e crepuscolari di Gli abbracci spezzati, il suo ultimo film è insieme un ritorno al passato e un vigoroso salto in avanti. Presentato all’ultimo festival di Cannes, La pelle che abito si nutre d’influenze letterarie – Mygale, il romanzo di Thierry Jonquet che è all’origine del film –, di passione cinéphile (è zeppo di omaggi a Franju, Lang, Hitchcock e Mankiewicz) e prende per buona la drammaturgia classica del thriller. La storia è un intrigo sulla metamorfosi, innescato dal desiderio di vendetta di un chirurgo estetico (Antonio Banderas), che prima si tinge di gotico e poi, dopo un imprevedibile coup de théâtre, ribalta ruoli e pulsioni, con un uso magistrale dei tempi del racconto e della suspense. Il risultato seduce per la felicità narrativa, per il primato dell’azione sullo psicologismo e per un’intuizione efficace quanto geniale: auscultare la transessualità attraverso la chirurgia e il fantastico. Una bella sorpresa: Almodóvar continua a fare Almodóvar. Questa volta però senza averne troppo l’aria.

Un romanzo, una struttura da thriller, un film di vendetta, un tributo a Occhi senza volto di Franju… La pelle che abito ha molte anime diverse.
È il mio metodo, lavoro per associazioni. Le idee possono arrivare da un trafiletto di cronaca, da un aneddoto sentito per caso, da un film che ho visto e poi hanno il loro tempo di maturazione. Alcune muoiono perché non sono abbastanza forti, altre sopravvivono ma non sono niente finché non diventano storie. Del romanzo di Jonquet non è rimasto quasi nulla, soltanto l’idea della vendetta, che una decina d’anni fa, quando lessi il libro, mi colpì molto. Le dimensioni della vendetta di Ledgard sono sproporzionate rispetto all’offesa che ha subito, la sua richiesta di risarcimento sfugge a ogni misura. Uno psicopatico che mi ha fatto venire in mente gli horror americani degli anni quaranta, ma anche i film di Fritz Lang: mi piaceva recuperare quella sensazione di turbamento e inquietudine che certe incarnazioni del male provocano prima di ogni interpretazione psicologica.

Uno degli aspetti più sorprendenti del film è la costruzione di una suspense “vecchio stile”, suggerire più che mostrare, molto brillante nei suoi esiti.
La ragione per cui ho scelto di fare un thriller è proprio il desiderio di costruire un film di suspense. Un tempo mi piaceva realizzare delle commedie scanzonate, oggi considero il thriller una specie di genere trasversale che mi consente di accedere a tutti gli altri e che descrive bene la realtà. La suspense è tutto in questa storia, che si regge sul difficile equilibrio tra quello che succede e quello che si vede. Non m’interessava ottenere effetti raccapriccianti, mostrare lo spettacolo dei corpi brutalizzati dagli interventi chirurgici, ma lasciare intendere che tutte quelle operazioni avvenissero, anche se lontane dagli occhi dello spettatore. Il processo emotivamente più coinvolgente, e attorno a cui vale la pena di costruire il mistero, è la folle idea della transgenesi, che il personaggio principale arriva a concepire, e la sua possibilità di realizzarla.

L’aspetto “sociologico” del film, la questione dell’onnipotenza dello scienziato, quanto le interessa?
Il personaggio di Antonio Banderas, questa specie di Cary Grant impazzito, ha l’ambizione di essere demiurgo onnipotente ed è completamente svincolato dalla morale. Credo che la scienza contemporanea rischi di alterare il concetto di umanità, sono spaventato di fronte alla possibilità che l’uomo possa determinare, grazie alla genetica, la nascita di un essere vivente. Io sto con il personaggio di Elena, che trova conforto nell’arte per resistere. La scienza ci aiuta ma espone l’umanità al pericolo di precipitare nell’abisso, l’arte invece ci è sempre vicina, riesce a regalarci il piacere e ci dà la forza per sopravvivere.

(di Roberto Pisoni)

Postato in Interviste, Numero 94.

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