Col sofky non si muore

Il grintaLa zuppa misteriosa del Grinta dei fratelli Coen
True Grit , Il Grinta, è il titolo del libro che Charles Portis – classe 1933, americano dell’Arkansas – scrisse nel 1968. Un romanzo sul mito del West ormai al tramonto, quando era già in funzione una Corte Distrettuale degli Stati Uniti d’America anche per il distretto dell’Arkansas. Nel 1878 Reuben J.Cogburn, detto “Il Grinta”, era uno sceriffo federale: “un vecchiaccio con un occhio solo” che aveva ucciso molti uomini e contribuito a sterminare i bufali, di cui adorava mangiare la lingua messa sottaceto.
SofkyEra un uomo spietato, eppure giusto, a suo modo, secondo le leggi non scritte che governavano il vecchio West. Rappresentante di un mondo a cui era sopravvissuto, diventò, negli ultimi anni della sua vita, l’attrazione di uno spettacolo da circo: “si dava in pasto al pubblico come una belva feroce della giungla”.
Il romanzo è epico ma non celebrativo, malinconico eppure divertente, uscito soltanto 65 anni dopo la morte di Cogburn. I dialoghi sembrano scritti per il cinema e sono riportati quasi fedelmente nei due film tratti dal romanzo. Il Grinta del 1969 di Henry Hathaway sottolineando il respiro epico della storia ne tradisce il finale e restituisce Cogburn – John Wayne – alla bellezza e all’immortalità del mito. Con il remake del 2010 i Coen ne assecondano invece la crudeltà e l’ironia, restano fedeli a Portis fino alla fine e consegnano il loro Cogburn – Jeff Bridges – ai carrozzoni del circo, alla vecchiaia e alla morte.
Vi chiederete quale ricetta si possa trarre da un film come questo. I western prestano sempre poca attenzione al cibo, se si escludono focacce, bistecche, fagioli, caffè e lingua di bufalo sottaceto. Ma Portis e i fratelli Coen oltre ad attirare la nostra attenzione sulla solita sbobba informe ed anonima in lenta cottura nel focolare, le attribuiscono un nome. Quando Cogburn, LaBoeuf e Mattie sorprendono i banditi Moon e Quincy all’interno del capanno, questi stanno preparando del sofky per Ned Pepper e il resto della banda. Il sofky, o asafki, è un piatto dei nativi americani: una zuppa di granoturco triturato a cui si possono aggiungere pezzi di carne.
La prima testimonianza scritta su come prepararlo appare nelle Chronicles of Oklahoma del 1918. Occorre partire dalle pannocchie di mais, sgranarle e lasciare i chicchi in ammollo per una notte. Successivamente si pestano leggermente in un mortaio di legno per aprirli e si lavano nuovamente per separarli dalla pula. Il mais spezzato e pulito si mette in un recipiente piuttosto grande, dal momento che il suo volume cresce “è difficile prevedere la quantità di sofky che verrà fuori”, lo si copre d’acqua e si cuoce per molte ore mantenendolo liquido. A fine cottura si aggiunge la liscivia, una tazza per ogni gallone di mais (un gallone americano è circa 3,79 litri). Si cuoce per un’altra mezz’ora e il sofky è pronto. Immaginiamo che l’aggiunta di liscivia servisse come disinfettante e quindi come conservante, in assenza di sale o aceto. Gli indiani Creek avevano sempre scorte di sofky da offrire ai visitatori come segno di ospitalità. Un loro proverbio recitava: “ Finché l’indiano potrà mangiare e bere sofky, non morirà”.
Si tratta, in sostanza, di una polenta molto rudimentale ottenuta dal granoturco spezzato anziché dalla farina. Nel caso vi fosse difficile reperire le pannocchie, non vi resta che comprare della farina di granoturco macinata molto grossa – dovrete impegnarvi un po’ per riuscire a trovarla – e, cuocendola per un paio d’ore, preparare una rudimentale polenta. Se volete potete aggiungere, a fine cottura, pezzetti di carne cucinati separatamente. Data l’informalità della ricetta, va bene qualsiasi animale abbiate a disposizione, dal cervo al vitello. Avrete così cucinato qualcosa di simile al sofky, e dal momento che non dovrete conservarlo per settimane, siete esonerati dall’utilizzo della liscivia. Consigliamo senz’altro di utilizzare il mais “ottofile” rosso della Garfagnana e della Lunigiana. L’Università di Pisa sta studiando gli effetti benefici di questa varietà sull’intestino. Forse gli Indiani Creek avevano ragione: sarebbero certo ancora vivi se non avessero dovuto affrontare le pallottole dei pionieri.
Dal momento che dall’Arkansas siamo finiti in Lunigiana, restiamoci e abbiniamo una Pollera in purezza.

(di Antonella Pina)

Postato in Numero 93, Quando il cinema sposa la cucina.

Una risposta a Col sofky non si muore

  1. emilio scrive:

    La polenta mi piace ,sopratutto se rustica;pero’ la liscivia mi ricorda il bucato stagionale di una volta. Per il resto coplimenti per la proposta che sperimentero’ con una farina regalatami da una amica carissima.