Intervista a Gibba


Incontro col maestro del cinema d’animazione, che ha oggi 86 anni ed è tornato nella sua Alassio. Ha realizzato il primo film d’animazione neorealista e geniali pornocartoon.
Scandalosa GildaLe storie del cinema lo ricordano perché a poco più di vent’anni ha realizzato il primo e unico cartone animato neorealista, gli spettatori di oggi non lo possono dimenticare per un esplosivo corto erotico inserito all’interno di Scandalosa Gilda. Francesco Guido, in arte Gibba, ha oggi 86 anni ed è tornato a vivere nella sua Alassio.

Ma ha alle spalle una vita passata con la matita in mano, a disegnare vignette, fumetti, cartoni animati. E ha moltissime cose da ricordare: da quando partì per Roma a diciassette anni col valigino in mano, agli incontri con Fellini e Zavattini, ai tanti imbroglioni che circolano tra i cinematografari romani.

Come mai quello pseudonimo, Gibba? Cosa significa?

Mia madre faceva di cognome Giribaldi, suo zio si chianava Bavera. Così unii i due cognomi e viene Gibba. Ma questa è una ricostruzione a posteriori. Non era un soprannome che mi avevano dato, era la firma che mi ero inventato quando studiavo dai Salesiani e a scuola facevo le caricature dei Padri e dei professori, ciose cattivissime, li disegnavo con pance enormi, deformi. Credevo che firmandomi Gibba non mi avrebbero scoperto, e invece quelle canaglie dei miei compagni fecero la spia e così i professori si vendicavano interrogandomi: “Venga un po’ alla lavagna il Pupazzettista”, dicevano…

Poi partì per Roma, giovanissimo, in pieno tempo di guerra.
Feci il ginnasio e il liceo al Don Bosco, disegnicchiavo per conto mio, era una vera passione. Ma nell’estate del 1942 venne ad Alassio De Sica per girare I bambini ci guardano, e io feci la comparsa insieme ai miei compagni, conoscendo un po’ di gente del cinema, operatori, fonici, capi-comparsa. Unendo la passione per il disegno a quella per il cinema, a settembre ho preso così il valigino di fibra e sono partito. Non avevo ancora diciott’anni, c’era la guerra, ma avevo saputo che a Roma stavano facendo i primi cartoni animati e volevo andare a vedere se mi prendevano come disegnatore e animatore. Il mio amico Giannetto Beniscelli, aveva uno zio a Roma che era direttore di una casa di produzione e mi procurò un incontro con un dirigente della Macco Film, che era finanziata dal partito. C’erano i fratelli Cossio che insieme a Luigi Giobbe si erano messi a produrre i cortometraggi di Pulcinella. Mi hanno preso, con mia somma meraviglia, e con disperazione di mio padre e mia madre che speravano fallissi e tornassi subito indietro. Mi diedero un mensile di milleduecento lire, quando mio padre ne guadagnava seicento lavorando come autista per il Comune. Ma c’era la guerra, ci fu un incendio e alla Macco bruciò tutto, così passai alla Incom…

Dove c’era un altro grande ligure, Antonio Rubino…
Era di Sanremo, e quando scoprì che ero di Alassio, nacque subito un grande rapporto affettivo. Ma anche Rubino dovette chiudere il suo lavoro, dopo due cortometraggi, Il paese dei ranocchi e Crescendo rossiniano. Mandavano la pellicola a sviluppare in Germania, all’Agfacolor, e con la guerra è successo di tutto, i negativi si sono persi, la Incom ha chiuso. Poi c’è stato l’8 settembre, ho ripreso il valigino e dopo un anno sono tornato ad Alassio, dove mi sono subito nascosto in soffitta per non andare a fare il soldato.

Ad Alassio fece il suo film più famoso, L’ultimo sciuscià, cartone animato neorealista.

Nel dopoguerra, con l’amico Beniscelli ci siamo messi a produrre corti pubblicitari sempre a cartoni animati per alcune ditte torinesi come l’Amaro Cora o la ditta di impermeabili Brown. Con noi c’era anche Mario Fazio, giornalista e futuro presidente di Italia Nostra. Ma i clienti scarseggiavano, dalla Liguria non arrivava nessun lavoro, e siccome avevamo imbastito questa società prendendo dei giovani coetanei e istruendoli, ci gettammo nella produzione di un film. Era uscito da poco Biancaneve e i sette nani, che da noi arrivò nel dopoguerra. E decidemmo di fare il cortometraggio L’ultimo sciuscià.

La questione del neorealismo era intenzionale?
Sì, era una cosa voluta. Ci siamo detti: basta con i soliti nanetti, i funghetti e tutte queste belinate, facciamo una storia vera, realistica. Così abbiamo raccontato la storia di un bambino vero, uno sciuscià solo, disperato, col suo cagnolino. Poi ci siamo messi a caccia del 3% ministeriale, la quota degli incassi che per legge veniva data ai cortometraggi abbinati ai lungometraggi che uscivano nelle sale. La legge non prevedeva ancora cartoni animati, perché in Italia praticamente non se ne facevano. Ho ancora le lettere del ministero, di Andreotti, che ci assicurava che avrebbero provveduto. Fu complicatissimo, ma alla fine ottenemmo il 3%, e con quello siamo andati a caccia di un distributore. E siamo caduti in una trappola mortale. Furbescamente, dicevano che non interessava, per tirare sul prezzo. Alla fine ci hanno dato solo 500 mila lire, ma ci era costato un milione solo di spese vive, senza contare il nostro lavoro. Così fallimmo.

E Gibba tornò a Roma…
Mi sono messo a cercare lavoro nel mondo dei cartoni animati pubblicitari. Ma l’ambiente romano ve lo raccomando. Il mio ultimo socio, quando glielo chiedevano diceva: sì Gibba, mi sembra di averlo conosciuto… Mi sembra? Due miliardi mi ha fregato! Avevamo fatto società al 50 per cento, lui faceva il produttore procurandosi dei soldi (non ce li metteva certo di tasca sua, era uno che li prendeva solo), io ci mettevo il lavoro. Poi, quando uscì il film, mi diceva sempre che ci avevamo rimesso, che non c’erano soldi. Io non potevo verificare, lavoravo su altre cose. Poi ho saputo che venndendolo e rivendendolo ci aveva fatto due miliardi e io non ho mai visto una lira…

Ci fu il mitico incontro con Fellini, per il corto Hello Jeep!
A Hello Jeep! ho lavorato un mese, poi è fallito tutto. Solite storie, l’amante del produttore… cose romane… E’ vero, Fellini aveva fatto il soggetto e due scarabocchi. Io fui chiamato col mio amico Kremos, che disegnava le donnine del Travaso, ed eravamo amici dal ’42-’43. L’intenzione era quella di fare un film d’animazione partendo dalle idee di Fellini per abbinarlo poi a Roma città aperta. Ma dopo un po’ non c’erano più palanche. Fellini giustamente se ne andò e il lavoro è rimasto a uno stadio iniziale, tre o quattro scene, anzi inquadrature. Non ho mai visto mezzo metro di ‘sta roba. All’epoca Fellini era magro, con tanti capelli in testa, parlava con quel suo gnè gnè: io non so disegnaaaare, ti posso dare l’ideeeea…

E l’amicizia con Zavattini?
Zavattini l’avevo cononosciuto con una scambio di lettere, nel 1942 o 1943. Poi, dopo quella conoscenza epistolare, a poco a poco siamo diventati amici. Alla fine degli anni ’40 aveva voluto vedere L’ultimo sciuscià e si era commosso, mi fece i complimenti. Poi, quando ero passato a lavorare alla Corona Cinematografica, avevamo avuto dei colloqui, andavamo a casa sua in cerca di idee. Una volta tornati, mi dicevano di modificare un po’ quelle idee, in modo da non doverlo pagare… Ma con Zavattini abbiamo continuato a sentirci per telefono, e ai tempi di Il nano e la strega abbiamo cominciato a incontrarci per strada perché lo studio era vicino a casa sua: andava in giro col suo cagnetto, siamo diventati amici, ci davamo del tu. Quando mi sono sposato, perché mi sono sposato tardi, mi ha mandato come regalo di nozze uno di quei quadretti che faceva lui. Siamo rimasti sempre in contatto, una cara persona.

Un lavoro che ha fatto spesso è quello di sigle con attori disegnati, Ugo Tognazzi in Tipi da spiaggia, Rita Pavone in Little Rita nel West, fino a Manfredi e Claudia Koll per la sigla tv di Linda e il brigadiere…
Per Rascel ho fatto Attanasio cavallo vanesio, un cortometraggio animato muto per la sua rivista con Garinei & Giovannini, che conoscevamo insieme a Kremos. Nel suo spettacolo tatrale c’era una scena con la corsa dei cavalli che non potevano certo fare a teatro, così hanno detto: facciamo fare un cartone animato, che poi veniva proiettato con l’accompagnamento musicale dell’orchestra della rivista. Era un quadro dello spettacolo, poi io ci ho appiccicato un sonoro con una musichetta, ma all’origine era muto.
Ho incontrato anche Xavier Cugat, gli ho fatto le animazioni con caballeros che sparano per un suo film. Era simpatico, col suo cagnolino, le scarpe di pezza e Abbe Lane, una stangona… Lavoravo anche come disegnatore, ad esempio per il Travaso. E per sei anni ho lavorato al Corrierino, dell’Unione Donne Cattoliche, ero uno dei principali collaboratori, regolarmente assunto e pagato. La morte di Pio XII mi ha fregato! Giovanni XXIII, appena arrivato, lo ha chiuso perché non rendeva, e così ci siamo ritrovati tutti a spasso da un giorno all’altro. Eh, Giovanni XXIII, fratelliii amiciii, ma ci ha fregati tutti!
Nel frattempo ho lavorato altrettanti anni con la Corona Cinematografica, fondata e diretta dai fratelli Gagliardi che venivano da Cairo Montenotte ed erano persone serie rispetto ai cinematografari romani. Si lavorava, si veniva pagati. Mi occupavo di tutto, avevo un’équipe che mi aiutava: allora il lavoro era tutto manuale, bisognava fare i disegni, colorarli, ripassarli eccetera. Poi però c’è stato un miglioramento della legge sui documentari che venivano abbinati ai film, e venne riconosciuto che una piccola percentuale di quel 3% doveva andare ai registi. E allora questi liguri-piemontesi cosa fecero? Misero il nome di uno di loro come regista, anche se l’avevo fatto io, e a me davano solo lo stipendio. Erano seri, ma troppo furbi. Così li ho denunciati. Ho vinto la causa, ma ho perso il lavoro.

Ha fatto anche dei Caroselli?
Ho fatto tante cose, di quelle che a Roma chiamavano “cotte e magnate”, fatte in quattro e quattr’otto, che nemmeno me le ricordo più. Ti chiamavano, lavoravi come un pazzo per venti giorni, facevi un po’ di nottate e davi questi tiotoli animati. Ho lavorato anche per gli americani, cinque o sei episodi di Braccio di ferro, di Krazy Kat… Per i Caroselli ho fatto tre o quattro Pantere Rosa, delle animaizoni per i caroselli della Esso “Metti un tigre nel motore”. E alcuni anche come attore, per il liquore Strega: in uno facevo il fotografo a piazza navona, in un altro il bagnante a Fregene, poi arrivava la strega a farmi i dispetti.

Poi, negli anni ’70, la svolta erotica…
Un amico e collega, Libratti, un mezzo ligure di La Spezia, faceva anche lui i titoli ma aveva l’animo dell’imprenditore. Io avevo fatto degli schizzi su un nano e una strega, ma non erotici. E lui invece mi disse: facciamone un film pornografico!

C’era appena stato Fritz il gatto, del 1971, che aveva avuto successo…
Non so se l’ho visto prima o dopo, buon film comunque. Io però non volevo fare Il nano e la strega. Ma siete pazzi, volete andare in galera!, gli dicevo. E poi, alla fine della favola, abbiamo preso un’altra fregatura. Fatto con quattro soldi, solite storie di cambiali mai onorate, un produttore che poi finì male e morì in miseria. La regia, per finta, l’aveva presa Libratti, perché io non volevo firmarlo, avevo paura di finire nei guai con la censura. Anche se poi c’è scritto che disegni e animazioni erano mie.
Dopo Il nano e la strega ero diventato un pornoanimatore, così mi chiamarono per un cortometraggio erotico da inserire nel film I tanta paura. All’interno della vicenda, a un certo punto, si vede che guardano questo cortometraggio in un club di porconi, dove poi si verifica anche un delitto. Un film che ho visto una volta sola e che mi ha fatto schifo.
Anni dopo, sono arrivati Gabriele Lavia e Monica Guerritore. Lei molto simpatica, lui un po’ sussiegoso ma bravo. Feci un altro corto, venne piuttosto bene. Addirittura ci furono dei critici che scrissero che era la cosa migliore del film, cosa che secondo me ha finito per inimicarmi Lavia, che era ed è un bravissimo attore.

L’anno scorso ha restituito l’Alassino d’oro al Comune di Alassio…
L’Alassino d’oro l’ho restituito, ma per questioni di educazione. Volevo avere delle informazioni dal Comune per una misteriosissima tessera di autorizzazione che veniva rilasciata dal Comune per i parcheggi, così chiesi un incontro col vice-sindaco. Ma ogni volta che andavo quello non mi riceveva. Mandai una lettera, dopo parecchi giorni mi telefonò uno, forse un impiegato, dando risposte generiche. Allora ho detto: restituisco questo Alassino d’oro, visto che non mi consente nemmeno di essere ricevuto dal sindaco!

E del cinema d’animazione di oggi cosa pensa?
Sono meravigliato ed esaltato dalla tecnica, ma orripilato dal punto di vista narrativo e visivo. Col computer si fanno cose eccezionali, ma che senso ha mettersi a far vedere anche la trama dei capelli, i peli della barba sulle guance, tutta una serie di cose analitiche che non servono a niente. Ultimamente ho visto Up!, una cosa meravigliosa dal punto di vista tecnico, ma dal punto di vista narrativo non c’è sentimento, non mi interessa… Preferisco rivedermi Biancaneve e i sette nani, quello sì che è un capolavoro.

(di Renato Venturelli)

Postato in Interviste, Liguria d'essai, Numero 91, Varie.

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