Mario Amendola, il romano di Recco


Ricordando il prolifico regista “romanesco”
Er monnezza - Tomas MilianE’ stato uno dei protagonisti della comicità romanesca, lo zio di Ferruccio e Claudio Amendola, l’inventore (insieme a Bruno Corbucci) del Nico Giraldi di Tomas Milian, l’autore di tanti lavori con Aldo Fabrizi, Maurizio Arena o Lando Fiorini. Pochi ricordano però che Mario Amendola è nato in Liguria, a Recco, esattamente cent’anni fa: l’8 dicembre 1910. E che a Recco ha trascorso tutta l’infanzia e l’adolescenza, vedendo i suoi primi film al cinema Rossini o in trasferta a Genova, per restare poi sempre un po’ legato alle sue radici liguri. Al punto da vantarsi di saper ancora parlare genovese: al contrario – diceva – di Paolo Villaggio, che ebbe modo di dirigere in Il terribile ispettore.

Come e perché Amendola fosse nato proprio a Recco, me lo aveva raccontato lui stesso tanti anni fa. “I miei erano attori di giro, e io nacqui quando la compagnia si trovava in Liguria, per cui venni lasciato a Recco dalla zia, che mi ha allevato. Era l’epoca in cui Recco non era stata ancora distrutta. Studiavo nella scuola privata delle sorelle De Marchi e giocavo a pallanuoto nei boys della Pro Recco. Ricordo nel 1917 che c’erano i prigionieri tedeschi a costruire l’ospedale. Ricordo la festa dell’8 settembre, coi fuochi d’artificio e le processioni. E ricordo tanti amici: Attilio Carbone, Carlo Rodino, Mario Cervetto, i fratelli Zannone, Vittorio Bacigalupo… Ogni tanto, i miei passavano a prendermi e mi portavano con loro a recitare. Ho fatto per anni Simonetto nella Fiaccola sotto il moggio, o La cena delle beffe. Poi tornavo a Recco. Me ne sono andato a quattordici anni, per diventare attore fisso”.

Raggiunti i suoi a Torino, Mario Amendola cominciò a fare “teatro, diciamo, serio”, mettendosi poi a scrivere per l’avanspettacolo e per la rivista. Ha lavorato un po’ con tutti: con Wanda Osiris, con Dapporto e Campanini (“che facevano Stanlio e Ollio con grande successo”), ma soprattutto con Macario, spesso scrivendo in coppia con Ruggero Maccari. “Ho lavorato con Rascel, Fanfulla, i Maggio… La sua prima vera rivista Tognazzi l’ha fatta con me, in Castellinaria. Ho scoperto Walter Chiari, che nel ’44 era a Milano come studente e alla sera andava a raccontare barzellette in un cinema, davanti allo schermo: con lui feci Gildo, una rivista di grande successo. E negli anni ’50 ha debuttato con me anche Johnny Dorelli, in La Venere coi baffi”.

Comincia ad avvicinarsi al cinema negli anni Quaranta, quando la sua notorietà nell’ambito del teatro leggero è già consolidata. E il suo primo film lo dirige nel 1949: I peggiori anni della nostra vita, con Carlo Campanini e Paolo Stoppa. Da allora scrive centocinquanta sceneggiature, prima legato a Ruggero Maccari, poi facendo coppia fissa con Bruno Corbucci: insieme a lui inventa il personaggio del maresciallo Nico Giraldi in Squadra antiscippo (1976) e via via in tutti gli altri film della serie, con Tomas Milian naturalmente doppiato dal fondamentale nipote Ferruccio Amendola.

Come regista, realizza quasi quaranta di film, spaziando un po’ in tutti i generi, compresi il musicarello, il western spaghetti e la spy-story all’italiana, a volte con lo pseudonimo di Irving Jacobs. Ma il suo terreno prediletto rimane sempre la commedia, dove alla fine degli anni Cinquanta ottiene i suoi maggiori successi: I dritti con Corrado Pani, I prepotenti con Fabrizi e Taranto, Le dritte… Tutti film che sulla scia dei vari Poveri ma belli fanno ottimi incassi e gli permettono di realizzare quello che resta forse il suo film più personale e sentito: Simpatico mascalzone (1959), dove può finalmente mettere in scena il suo mondo, quello degli scavalcamontagne che vivono smontando e rimontando continuamente il tendone del loro teatro ambulante.

Perché Mario Amendola, nella sua lunghissima attività, testimonia proprio questo: l’eredità di un sapere artigianale dello spettacolo che arriva dritto dalle compagnie di teatranti girovaghi di fine Ottocento in cui era nato e cresciuto, passando poi attraverso tutte le forme di spettacolo popolare del Novecento, dall’avanspettacolo alla rivista, dalla commedia musicale al cinema, fino alla televisione. I suoi film appartengono al cosiddetto cinema di consumo, quello che si definisce “medio basso”, ma che riciclando le vecchie formule consolidate si porta dentro anche un sapere antico, un mestiere concreto, un senso del ritmo, del rapporto con gli attori e con il pubblico che deriva dal contatto diretto con gli spettatori maturato in anni e anni di esperienza sul campo.

C’è un aneddoto di Piero Regnoli che la dice lunga. “Mario Amendola – ricorda – aveva un archivio che, ai miei sistemi di sceneggiatore, risultò assolutamente inusitato. Aveva un casellario alfabetico per gag. Mettiamo che a un certo momento venisse fuori la parola “barbiere”, lui diceva: “Fermi tutti, un momento!”, si alzava, andava all’archivio, tirava fuori il cassettino della lettera B, cercava il vocabolo “barbiere” e cavava una decina di gag sulla figura del barbiere, venticinque battute sui barbieri. Amendola aveva fatto un sacco di avanspettacolo e di rivista…”. Ed è a questa lunga memoria teatrale che faceva riferimento anche Mario Mattoli, quando diceva “Ho fatto per anni il varietà, con i più grandi numeri del mondo. Era tutta gente con una tradizione enorme che presentava minuti condensati di spettacolo in cui c’è tutto, straordinari! Non è lo scrittore che scrive una scena di cui non si sa perché l’ha cominciata e perché la finisce, questi attori avevano i tempi a secondo, un grande mestiere, una grande tradizione famigliare”.

La tradizione di Marione Amendola, insomma, quella che affonda le sue radici tra i girovaghi dell’Ottocento per arrivare fin quasi alle soglie del Duemila (Amendola è morto nel 1993, attivo fino all’ultimo). Una tradizione che fa piacere ricordare soprattutto con Simpatico mascalzone, la sua malinconia per un mondo di teatranti destinati ad essere spazzati via dalla tv, la dignità irriducibile del capocomico Carlo Campanini, la faccia lunare di Alberto Sorrentino: che fa il cassiere, poi la maschera e quindi corre sul palcoscenico a interpretare Cassio in una delle più avventurose versioni dell’Otello viste sugli schermi italiani.

(Renato Venturelli)

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