Quel che resta del festival


Festival di CannesNonostante un concorso deludente, anche quest’anno a Cannes ci sono state scoperte, opere da difendere, conferme di tendenze in atto.

Ecco i casi principali:
1) Il thailandese Apichatpong Weerasethakul, che con Lung Boonmee ha vinto una Palma d’oro quasi inevitabile. Era il nome nuovo da consacrare, l’autore emergente non ancora premiato, e il suo film conferma una visione fortemente personale, anche se sull’orlo della maniera.

2) Xavier Beauvois, che in Des Hommes et Des Dieux rievoca la storia anni ’90 di un convento di frati francesi assediato in Algeria dalle minacce integraliste: qualche eccesso di solennità, ma è un bel film, molto classico nella scrittura, apprezzato da tutti.

3) Manoel De Oliveira (nessuno dice più 102 anni), che con Lo strano caso di Angelica riprende un antico progetto, realizzando una memorabile riflessione sull’immagine, la memoria, la vita e la morte. Film raccontato con misura esemplare: da vedere, anche se molto discusso a Cannes.

4) Fuori formato alcune delle opere più interessanti, a cominciare da Boxing Gym di Frederic Wiseman. O dal fluviale (5 ore) Carlos di Olivier Assayas, che hanno escluso dal concorso perchè di produzione tv: ma è stato uno dei momenti forti del festival.

5) Mike Leigh, che con Another Year rifinisce ulteriormente la sua formula prediletta, quella che in passato l’aveva già portato a Belle speranze o Segreti e bugie: cinema risaputo, si dirà, ma rielaborato qui al suo meglio.

6) Sergej Lonitza, ucraino, noto finora come documentarista: il suo Schastye Moe è alla lunga un po’ pasticciato, ma con momenti di straordinaria forza e intensità. Talento indiscusso, da seguire.

7) Continua il momento d’oro del cinema rumeno, che ha riversato un bel po’ di titoli nelle diverse sezioni del festival, anche se sta mostrando una certa ripetitività di stili e formule. Opere di Christi Puiu (Aurora), Radu Muntean (Martedì dopo Natale), ma soprattutto il documentario su Ceausescu, firmato Andrei Ujica (“Dopo tutto, il dittatore non è che un artista che ha la possibilità di mettere totalmente in pratica il suo egotismo: è solo una questione di livello estetico, che si chiami Baudelaire o Bolintineanu, Luigi XVI o Ceausescu”).

8) Italiani. Solito disinteresse internazionale per il cinema “ufficiale”, questa volta rappresentato da La nostra vita di Luchetti. Più appassionate, soprattutto da parte francese, le reazioni a Le quattro volte di Michelangelo Frammartino.

9) Pollice verso: verdetti inesorabili contro il lezioso Inarritu di Biutiful (nonostante Javier Bardem), Nikita Michalkov (ma che ci stava a fare?), l’Hideo Nakata webthriller di Chatroom. Indifferenza per l’anonimo Ken Loach di Route Irish; incomprensibili gli attacchi violentissimi al Kitano yakuza di Outrage.

10) Tra i classici restaurati, da segnalare almeno La 317° Section di Pierre Schoendoerffer, tesissimo film di guerra sul tema della pattuglia perduta nel bel mezzo della guerra d’Indocina. In Italia, Schoendoerffer è quasi del tutto ignorato: a parte pochi sostenitori, come il nostro Claudio G.Fava…

(di Renato Venturelli)

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