La solitudine dei numeri primi


La solitudine dei numeri primiRaccontare con i corpi
Il trasferimento sullo schermo di un bestseller letterario deve fare i conti non soltanto con l’apologo hitchcockiano delle due capre («…il libro da cui è tratto era più buono…»), ma anche con la tentazione autoriale dell’autonomia linguistica e strutturale, alla quale Saverio Costanzo – con la complicità dello stesso Paolo Giordano – non ha voluto certo rinunciare.

Pur rispettoso dell’impianto narrativo originale di La solitudine dei numeri primi, il regista di Private e In memoria di me ha scelto di distinguersene attraverso due canali espressivi esplicitamente cinematografici. Da una parte, ha rotto il lineare sviluppo cronologico del romanzo in un montaggio che mescola continuamente gli anni e gli eventi attraverso la presenza di attori diversi per le tre età cruciali dei personaggi (infanzia, adolescenza, maturità) e l’esibita invadenza di una colonna sonora che trascorre “fragorosamente” dai cartoni animati televisivi, alla musica da discoteca, sino all’ostentato silenzio delle ultime sequenze.

Dall’altra, Costanzo ha puntato a raccontare i personaggi (e con loro un’intera generazione) soprattutto attraverso i corpi: feriti dalle cicatrici o dai tatuaggi, dall’autolesionismo o dalle occhiaia profonde, da un virtuosistico processo di dimagrimento (lei) o di ingrassamento (lui). In realtà, nel film c’è anche una terza tentazione cinematografica che si esplicita in forma di citazioni (dalle indeterminazioni spaziali degli horror di Dario Argento, con annessi Goblin, al minaccioso sguardo kubrickiano sulla torre-albergo di Sestriere), ma queste in fin dei conti riescono essere solo un ammiccamento al pubblico più che un elemento fondante la narrazione, proprio perché sono sempre troppo dichiarate ed esibite, poco inserite nell’assetto stilistico del film. Se anche la rottura della continuità temporale corre sovente il rischio di essere più un tributo alla moda che una via per scavare nel labirinto esistenziale dei personaggi, quella che sembra essere la scelta più interessante di Costanzo è la tendenza a raccontare una generazione (e quella dei loro genitori) attraverso i corpi degli attori, i quali
parlano molto più degli scarni dialoghi che restano nell’adattamento del romanzo. È in questa direzione che il film dà il meglio di sé.
E la storia di Alice (ferita nelle gambe da un incidente di sci, indirettamente provocato dalla mal riposta ambizione paterna) e di Mattia (genio scientifico, cresciuto con il senso di colpa per aver provocato da bambino la morte della sorellina gemella) – i due “numeri primi” del romanzo: inesorabilmente votati alla solitudine – assume, attraverso lo sguardo di una cinepresa che da questi corpi mai si distacca, una sua legittima originalità.

Anche se poi, come sovente accade nei film “autoriali” non solo italiani, La solitudine dei numeri primi finisce più col mettere in scena in modo pregiudiziale – pur attraverso la concretezza fisica dei corpi degli attori – i sentimenti e i turbamenti interiori dei personaggi, piuttosto che lasciar vivere questi personaggi sullo schermo e raccontare come nelle loro azioni e nei loro comportamenti quelle passioni e quegli stati d’animo riescano assumere una concreta realtà cinematografica.

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI
La solitudine dei numeri primi
(Italia, 2010)
regia: Saverio Costanzo – soggetto:
dall’omonimo romanzo di Paolo Giordano
– sceneggiatura: Paolo Giordano e Saverio Costanzo
– fotografia: Fabio Cianchetti
– musiche: Mike Patton
– scenografia: Rinaldo Geleng e Marina Pinzuti
– costumi: Antonella Cannarozzi
– montaggio: Francesca Calvelli
– interpreti: Alba Rohrwacher (Alice adulta), Luca Marinelli (Mattia adulto), Aurora Ruffino (Viola), Isabella Rossellini (Adele), Maurizio Donadoni (Umberto), Roberto Sbaratto (Pietro), Giorgia Senesi (Elena), Filippo Timi (Clown). Distribuzione: Medusa Film
– Durata: 118′

Postato in Numero 89, Recensioni, Recensioni di Aldo Viganò.

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