Dreamgirls

Diventato grande negli studios hollywoodiani degli anni Trenta e Quaranta, con il trascorrere del tempo, il musical cinematografico americano si è evoluto uscendo per le strade, si è infiltrato nelle discoteche e si è anche contaminato con l’estetica del video-clip. Ha conservato sempre, però, come sua impronta distintiva l’uso essenzialmente narrativo della musica e delle canzoni, alle quali viene affidato non solo il compito di veicolare i sentimenti dei personaggi, ma anche quello di portare avanti l’azione scenica. Nulla a che fare con i siparietti esplicativi del cabaret o con i songs ideologici del brechtismo.

Anche quando, come accade in Dreamgirls, i pregi e i difetti di una lunga tradizione si mescolano di continuo e il musical torna a raccontare la storia risaputa della debuttante (in questo caso addirittura un trio di debuttanti) che si aggira alla ricerca del successo nella foresta del palcoscenico infestata di lupi, le qualità del genere vanno ricercate non tanto nei contenuti, più o meno originali, quanto nel dato essenzialmente estetico di come il racconto si costruisce nella autonoma specificità del linguaggio utilizzato. Ed è, appunto, nell’ambito di questa tradizione e su un tale piano squisitamente formale che un film quale Dreamgirls chiede di essere valutato. Nel bene e nel male. Nella sua struttura narrativa come nella sua composizione figurativa o nel suo andamento ritmico e affabulatorio.

Firmato alla regia (ma non solo) da quel Bill Condon già apprezzato sceneggiatore di Chicago, Dreamgirls mescola la fiaba con la biopic (la vicenda allude alla biografia di Diana Ross e delle sue Supremes), la classicità un po’ stucchevole della trama principale con lo sfondo tutto moderno delle lotte per l’emancipazione razziale, l’attenzione per il primato della musica (composta per il palcoscenico da Henry Krieger) con l’indulgenza nei confronti di un montaggio preoccupato più di fare movimento che di costruire significati. Ne sortisce un’opera certo non perfetta, ma comunque un film non privo di qualità.

Dopo un inizio un poco faticoso e privo ancora di un preciso centro narrativo, il tono si alza nella descrizione delle prime esperienze e dell’ascesa al successo di quel trio canoro di provincia, raggiunge l’apice emotivo nella drammatica sequenza centrale in cui un’amicizia si spezza per lasciare spazio a una duplice solitudine destinata a ricomporsi solo nell’apparenza (troppe ombre e troppi sguardi oscuri in quella sequenza finale) dell’happy end più convenzionale. L’arma vincente di Dreamgirls sta proprio nel modo in cui, passando continuamente dalla parola detta a quella cantata, il racconto definisce non solo il fluire della vicenda umana dei personaggi, ma concorre anche a svelarne i sentimenti e ad approfondirne le motivazioni interiori.

Il meglio del film sta cioè nella sua classicità, nella sua consapevole adesione alla nobile tradizione di un genere cinematografico, il musical appunto, con tutto quanto necessariamente a quel genere appartiene: precisione nella composizione formale, belle canzoni (pur con il predominio delle tonalità un po’ ripetitive del “soul”) e attori-cantanti personali (dall’affermata Beyoncé Knowles all’esordiente Jennifer Hudson), ricchezza dell’apparato figurativo e sapiente alternanza di commedia e melodramma.

Dreamgirls
(U.S.A. 2006)
Regia: Bill Condon
Seneggiatura: Bill Condon, dal libro di Tom Eyen
Fotografia: Tobias A. Schliessler
Musica: Henry Krieger
Scenografia: John Myhre
Costumi: Sharen Davis
Montaggio: Virginia Katz
Interpreti: Jamie Foxx (Curtis Taylor jr.), Beyoncé Knowles (Deena Jones), Eddie Murphy (James “Thunder Early), Danny Glover (Marty Madison), Jennifer Hudson (Effie White), Anika Noni Rose (Lorrell Robinson), Keith Robinson (C.C.White), Sharon Leal (Michelle Morris), John Lithgow (Jerry Harris)
Distribuzione: UIP
Durata: 131 minuti

(di Aldo Viganò)

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