Brucio nel vento

Silvio Soldini, il meno nostrano dei registi italiani, non ama ripetersi e s’innamora soprattutto delle storie e dei volti dei personaggi preposti a viverle. Dopo la trilogia delle “occasioni offerte dal destino” (L’aria serena, Un’anima divisa in due, Le acrobate) e il successo in parte inaspettato di una commedia stranamente solare (Pane e tulipani), Soldini ha girato con Brucio nel vento forse il suo film più complesso ed “estremo”, che guarda al melodramma, ma vi coniuga all’interno temi squisitamente autoriali che attraversano tutta la sua filmografia e permeano di sé i suoi protagonisti: l’insoddisfazione personale per ciò che la vita offre, la forte attrazione verso la possibilità di un’esistenza diversa, l’intervento quasi sempre risolutore del caso, che non si presenta tanto sotto la forma trascendente del destino (Soldini non è Kieslowski), quanto sotto quella di un’occasione che i protagonisti non possono e non vogliono mancare.

Come molti melodrammi, Brucio nel vento è percorso anche da una forte tensione onirica, tanto da lasciare margine alla possibilità di leggere tutto il film senza esplicito riferimento alla realtà, pur così meticolosamente descritta in quella Svizzera antituristica in parte rubata a stradine e scorci di paesaggio dell’Europa dell’est. Perché Tobias “muore” nel prologo e torna sovente a “morire” nel corso dei suoi lunghi pedinamenti di Line o sulle pagine del quaderno cui consegna le proprie speranze di successo letterario? Perché anche Line “muore” con il capo sulla spalla di Tobias e risorge solo dopo di aver scelto di abortire? Perché, ancora, la morte apparente torna con insistenza nelle coltellate inferte ai genitori di Tobias o al marito di Line? Sembra proprio che a Soldini interessi costruire il racconto tratto dal romanzo di Agota Kristof su quel territorio di confine che separa l’essere e il non essere, la vita e la morte: onde, la forte presenza della letteratura che non si concretizza solo in ciò che Tobias scrive e legge in continuazione o nell’insistenza della sua voce fuori campo, ma anche nella tonalità di un racconto per immagini che si articola e si distende sui modelli delle ellissi e del divenire tipico della narrazione scritta.

C’è qualcosa degli ultimi film di Truffault, in questa meditata opera di un regista che guarda alla Francia con animo svizzero e con disponibilità a lasciarsi leggere anche in termini esplicitamente politici (l’emigrazione e lo sradicamento culturale). Senza forse la leggerezza del regista di La signore della porta accanto, ma con simile tensione nel dare forza a un’immagine, a uno scorcio di paesaggio, a un volto silenzioso, a un inaspettato stacco di montaggio. E questo vuole essere un complimento per un film fatto sovente di non-detto, di sfumature e di trasparenze oniriche: come quella cui Soldini affida (hitchcockianamente) la propria presenza riflessa sul finestrino del pullman che come tutti i giorni riporta a casa Tobias dal lavoro in fabbrica.

BRUCIO NEL VENTO
(Italia 2002)
Regia: Silvio Soldini
Sceneggiatura: Silvio Soldini e Doriana Leondeff, dal romanzo Ieri di Agota Kristof
Fotografia: Luca Bigazzi
Musica: Giovanni Venosta
Scenografia: Paolo Bizzarri
Costumi: Silvia Nebbiolo
Montaggio: Carlotta Cristiani
Interpreti: Ivan Franeck (Tobias), Barbara Lukesovà (Line), Caroline Baehr (Yolande), Ctirad Gotz (Janek)
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: un’ora e 58 minuti

(di Aldo Viganò)

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