Io, il cinema e la dolce vita


Testimonianza raccolta da Aldo Padovano.
Franco Leo racconta le sue avventure romane: la musica,
i film, il teatro, i fotoromanzi, Maurizo Arena e Carmelo Bene…

CANTANTE LIRICO
La mia storia inizia come studente di canto lirico. Avevo sedici anni… Ovviamente non dirò
la mia data di nascita perché, essendo nato troppo presto… meglio soprassedere. Per fare
una citazione dall’Ernani di Verdi, “Ah, perché l’etade in seno giovin core m’ha serbato!”. Dunque studio per vari anni la lirica con un maestro bravissimo, emiliano, che abitava a Sestri Ponente, si chiamava Otello Giacobini. Studio con grande passione, avevo una passione sfegatata per il canto, io vivevo solo per cantare la lirica.
Quando arrivavo nella casa di questo maestro, un palazzetto a tre piani – lui abitava nella soffitta – salendo la scala sentivo già il suono del pianoforte: per me era il Paradiso, quando arrivavo lì dentro ero in Paradiso. Non mi schiodavo da lì per tutto il giorno, ascoltando tutte le prove e le lezioni che impartiva a tutti gli altri cantanti. Io ero lì ad ascoltare tutti con la bocca aperta.

LE CANZONI E LA RCA
Poi a un certo punto succede che gli amici mi fanno: “Franco, che stai a fare, non va più la lirica, lascia perdere, fai le canzoni”. Io mi faccio convincere da queste teste di cazzo di amici e comincio a decostruire tutto quello che avevo costruito durante questi anni di studio. Divento un cantante di musica leggera, dimenticando tutta l’impostazione lirica. Quindi parto per Roma. Lì conosco un’attrice che si chiama Isabella Biagini con la quale poi sono stato per tanto tempo. Lei mi presenta Piero Umiliani, un maestro che stava alla RCA Italiana, il quale mi fa un’audizione e così incomincio a registrare dei dischi per la
RCA. Incido sette o otto dischi con le orchestre di Luis Enriquez Bacalov ed Ennio Morricone. Mi ricordo che mentre Enzo Micocci, il direttore della RCA a quel tempo, saliva la scala polverosa e ripida degli antichi studi che stavano in via Nomentana, io ero in fondo a questa scala e cercavo di seguirlo piano piano. Continuavo a parlare di me, che ero bravissimo – ma non l’ho mai creduto nemmeno per un istante, gli altri erano tutti
sicuramente più bravi, ma io fingevo di esserlo – Micocci si gira verso di me e dice: “Leo, non alzi troppa polvere!”. Insomma, incido questi dischi, faccio serate un po’ dappertutto, a Roma e dintorni.

LA DOLCE VITA
A Roma conosco Maurizio Arena, attore molto famoso all’epoca. Stavamo insieme praticamente sempre, in giro per locali come il Café de Paris, il Club 84, dove c’era Peppino di Capri, tutta questa gente qui. C’erano Gianni Minà e Maurizio Costanzo che ci guardavano passare abbastanza invidiosi del nostro successo con le femmine. Perché ne eravamo veramente stracolmi, era una cosa pazzesca. Non posso stare a parlare di queste cose, non ha senso…La Dolce Vita era quella lì, l’ho praticamente vissuta tutta.
Ho cantato nel frattempo in tutte queste feste che noi vediamo nel film La dolce vita, le feste di questi nobili romani. Io ero lì e cantavo in un’orchestra diretta da un maestrino che credo sia ancora vivo. Si chiamava Leo di Sanfelice. Lui era dentro questa alta società romana. Era esattamente come si vede nel film. Fellini non ha fatto niente di diverso da quello che avveniva nella realtà. Quel periodo l’ho vissuto tutto e ho fatto le stesse
cose che si vedono nel film. Credo che le facessero tutti quelli che vivevano in quell’ambiente.

I FOTOROMANZI
A un certo punto mi stanco anche di questo tipo di attività, perché io ero un cantante solista
e in quel momento stavano arrivando i cantautori: Sergio Endrigo, Nico Fidenco con il suo
“Granello di sabbia”, Gianni Meccia con il “Barattolo”…
Io ero tagliato fuori perché non ho mai saputo scrivere nessuna canzone. Abbandonata
la professione di cantante mi dedico ai fotoromanzi. Faccio un po’ di lavoro come attore, a
Roma e a Milano soprattutto, e poi comincio a fare il regista e il produttore di questi fotoromanzi. Ne ho fatti tanti, cinquanta o sessanta, e la testata era: “Fotoromanzi della Gondola e della Fontana”. A un certo punto finisco queste produzioni in Italia e vado a Parigi e presento alcuni dei miei fotoromanzi all’editore Chasse il quale li guarda e mi dice: “Lasci perdere, signor Leo, non mi interessano, le sue attrici sono mal pettinate!”. In effetti io usavo delle parrucchiere improvvisate, mentre i francesi erano molto più bravi con il trucco e tutto il resto.

L’ATTORE: PASOLINI E VISCONTI
Conclusa anche questa attività ritorno a Genova.
Stavo bene a quell’epoca, perché avevo guadagnato tantissimi soldi. Mi chiedo: cosa potrei
fare adesso, vediamo un pochettino… ma sì, m’improvviso e faccio l’attore. Da un fotografo
bravissimo che aveva lavorato con me nei fotoromanzi, Nicola Cantatore, veramente un
grande fotografo, mi faccio fare un book e con questo parto e vado a Roma. Vado a Roma convinto come quando ho iniziato a fare il cantante di musica leggera, convinto che io fossi veramente un grande attore, cosa che non avevo mai immaginato di fare. Arrivo a Roma e il primo appuntamento lo prendo…, non mi ricordo come feci ad averlo, sta di fatto che mi ritrovo in una fine mattinata a casa di Pier Paolo Pasolini all’EUR.
Parlo con Pasolini il quale consulta le mie fotografie e conclude l’incontro dicendo: “Si si,
va bene, bello, ma sei troppo aristocratico per i miei personaggi, per i miei film. Tu sai con chi lavoro, con Franco Citti, capisci, saresti un po’ fuori luogo. Non credo di potere fare niente per te. Ti consiglio di provare altrove”. Pasolini, non sta a me dirlo, era una persona deliziosa. Di un’ospitalità incredibile. Io, uno sconosciuto, sono andato da Pasolini e lui mi ha ricevuto a casa sua. “Forse per il genere di personaggio che puoi fare – mi disse – potresti andare da Visconti”. Non mi perdo assolutamente d’animo – solo un po’ deluso, perché mi sarebbe piaciuto molto lavorare con Pasolini – e vado in via Salaria, nella villa di Visconti. Suono, esce fuori un servitore, con una livrea bianca, e apre il cancelletto.
All’angolo di questa villa c’era una targa in maiolica, bianca e blu, se ben ricordo, con la scritta Rue Visconti. Chiedo a questo cameriere, che mi pare fosse spagnolo, di comunicare al Maestro che c’era uno che era stato mandato da Pasolini. Quello rientra, poi ritorna, non mi guarda neanche in faccia e mi dice: “Guardi, il Maestro non riceve nessuno!” Finì così questa storia del mio inizio che avevo intrapreso con tanto entusiasmo, perché ero convinto di spaccare tutto.

IL CINEMA E LA TV
A questo punto mi cerco un agente cinematografico e vado da Lia Alimena, che è ancor oggi
il mio agente, ha cent’anni anche lei. Però ogni tanto mi chiama…Quasi subito riesco a fare un film abbastanza importante che si intitola Due volte Giuda (1968). La regia era di Nando Cicero, gli interpreti Klaus Kinski, Antonio Sabàto e io.
Così incomincio l’attività cinematografica interpretando anche Quella sporca storia nel West (1968) di Enzo G. Castellari con l’attore hollywoodiano Gilbert Roland. L’anno dopo ho una parte nel Satyricon di Gian Luigi Polidori e una nel Ragazzo dagli occhi chiari di Emilio Marsili, la storia di un fuggiasco sulla montagna con un giovanissimo Alessandro D’Alatri. Nel frattempo lavoravo anche per la televisione: con Edmo Fenoglio nei Giorni dei Turbin (1969), con Renato Castellani nel Leonardo da Vinci (facevo Girolamo Savonarola) (1972), con Sandro Bolchi nei Fratelli Karamazov (1969), con Beppe Fina alla sede RAI di Napoli registriamo Ross:Lawrence d’Arabia (1969), con Giorgio Moser sono il protagonista
nello sceneggiato televisivo intitolato Appuntamenti di Mezzanotte con Pier Luigi Aprà
e Paola Quattrini, mi par di ricordare. Con Moser faccio anche Sulla rotta di Magellano, un
romanzo a puntate sulla storia di Magellano, appunto.
Poi con Leandro Castellani, invece, faccio La Gatta (1978), con Catherine Spaak, con la
quale avevo già lavorato in precedenza in un film di Damiano Damiani che era Una ragazza
piuttosto complicata (1968).

IL TEATRO SPERIMENTALE
Nel ’68 faccio un lavoro molto interessante nuovamente con Edoardo Torricella, il primo spettacolo di nonsense in Italia. Spettacolo interessante, in due parti. La prima era basata completamente sui nonsense. Abbiamo lavorato nel Teatro Centouno a Roma, all’epoca di Proietti e Calenda, per trenta sere consecutive senza nessun canovaccio nella parte nonsense. Nella seconda parte si presentavano i personaggi, dunque la personalità dell’attore se vogliamo, dove io facevo varie cose, da Shakespeare a Pirandello, al Marat Sade di Peter Weiss. Fu un successo piuttosto notevole, perché lì vennero tutti i grandi attori italiani, c’era Paola Borboni, Gassmann, Albertazzi. Più di una volta sono venuti a vedere lo spettacolo. C’era Gabriella Ferri. Io a quell’epoca soffrivo di angosce tremende. Fra la prima parte e la seconda parte dello spettacolo c’erano quindici minuti. In quei quindici minuti riuscivo ad andare all’ospedale San Camillo, dove c’era un medico che ormai mi conosceva e preparava la siringa di Valium. Appena vedevo questa siringa gli dicevo: “Dottore, me ne faccia poca, perché a me ne basta poca!” Mi faceva questa mezza fialetta di Valium e ritornavo indietro di corsa per iniziare il secondo atto e c’era Gabriella Ferri che mi diceva: “A Fra’, ma lassa perde! Fatte ‘na canna, che te passa tutto!” E così iniziava il secondo atto. Questa è stata un’esperienza abbastanza interessante, ma molto difficile. Ho lavorato per mesi a questa frantumazione del linguaggio, perché nel nonsense non ci doveva essere alcun aggancio.

CARMELO BENE
Avevo iniziato con Pasolini, ma l’altro personaggio che mi interessava tanto conoscere era
Carmelo Bene, che ovviamente riesco a contattare. Lo incontro in via dell’Oca, in un Bar che
forse si chiamava Plinio. Una sera ero in compagnia di una mia amica fiorentina, Laura Papi, che conosceva bene Carmelo, me lo presenta e io gli dico: io ho fatto il cantante, faccio anche l’attore, ho fatto delle cose…Lui mi guarda e mi chiede: “Ma tu di dove sei?” “Io sono leccese di origine”. “Sono pure io leccese!” Queste cose penose dei compaesani che si incontrano. Comunque lì nasce una simpatia reciproca. Carmelo mi dice che sta per iniziare un film intitolato Salomé. “Potresti fare la parte del Cristo”. Io dico: meglio di così non poteva andarmi. Comincio a lavorare con Carmelo, faccio questa parte e da lì non ci lasciamo più praticamente per sei, sette anni. Dopo Salomé (1972) facciamo Amleto, al cinema (1973), in teatro (1974) e in televisione (1978), girando l’Italia da Palermo ad Aosta con un successo straordinario, una cosa meravigliosa. Dopodiché mettiamo in scena anche la Cena delle beffe di Sem Benelli (1974), una produzione del Teatro Stabile dell’Aquila che a quell’epoca credo lo avessimo rovinato per avergli fatto spendere un sacco di soldi. Costò 500 milioni dell’epoca: erano state preventivate circa 150 repliche, in realtà finiamo al Sistina dopo solo trenta repliche, non di più.

BYE BYE BERLUSCONI
Nel 2005 c’è stato l’incontro con Jan Stahlberg, un giovane regista tedesco che mi propone di interpretare uno dei protagonisti del film Bye Bye Berlusconi dove io faccio la parte del produttore del film che si sta girando tra mille difficoltà. Per ovvie ragioni non è mai uscito in Italia, tutti sappiamo perché. Anche il senatore De Gregorio ne parlava nella trasmissione “Servizio Pubblico”: “Come mai il film Bye Bye Berlusconi che all’estero
ha vinto un sacco di premi non è mai uscito in Italia?” Vedrai che adesso lo faranno
uscire perché ne ha parlato De Gregorio.

PETER GREENAWAY
Ripopolare la reggia (Peopling the Palace) è un film/installazione realizzato da Peter Greenaway nel 2007, in cui io sono uno dei personaggi in costume che raccontano la vita quotidiana nel Seicento alla Reggia di Venaria Reale. Le immagini degli attori, filmati in un teatro di posa, furono proiettate sui muri e sui soffitti della Reggia. Io facevo la parte di un libertino affetto dalla sifilide e avevo un servo che mi accompagnava.
Tutto lo studio era avvolto da panni neri. Avvicinammo Greenaway affinché ci spiegasse
cosa dovevamo fare. Ma la comunicazione tra lui e l’attore che interpretava la parte del servo si stava facendo troppo complicata e Greenaway per tagliar corto disse: “Franco fucks your wife!”, e la finì lì.

DARIO ARGENTO
Sempre nel 2007 ho interpretato la parte di un monsignore nel film La terza madre di Dario  Argento. Stavamo girando in un cimitero in Piemonte (che in realtà doveva rappresentare quello di Viterbo) e la scena prevedeva che un uomo, a bordo di una piccola escavatrice, cadesse in una fossa dove era sistemata una bara. La troupe era lontana dalla scena perché il dolly effettuava un lungo percorso prima di scavalcare il cancello del cimitero e arrivare alla fossa. Lo stuntman, che era legato per sicurezza e che in precedenza si era vantato della sua audacia dicendo che aveva fatto anche l’uomo torcia, non si decideva a buttarsi. All’improvviso Argento comincia a urlare istericamente: “È un pavido! Ha paura! Ha paura! Ma chi lo ha portato? Licenziatelo! È pagato per questo!”.
A quel punto comincia a squillare un cellulare. Tutti si fermano e si guardano attorno.
“È in quella borsetta” dice un tecnico. “Presto, buttatela nell’acqua!” esplode Dario.
Ma nel cimitero acqua non ce n’era proprio.

LA BOCCA DEL LUPO
Vengo contattato dal regista Pietro Marcello per registrare la voce fuori campo del film La
Bocca del Lupo, interamente girato a Genova nel 2009. Faccio questo audio che mi è costato una fatica che non potete immaginare. Abbiamo fatto tre registrazioni a Genova e tre a Roma, finché non siamo riusciti a fare quello che lui voleva da questa voce narrante. È stato un bel lavoro.

Postato in Attori, Numero 100.

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