MANARAT 2018 – Algeria allo specchio: Intervista a Sofia Djama

di Massimo Lechi.

Presentato con successo nella sezione Orizzonti di Venezia 2017, The Blessed (Les Bienheureux) di Sofia Djama, dopo aver macinato chilometri nel grande circuito festivaliero per quasi un anno, è alla fine arrivato in Tunisia, in gara alla prima edizione di Manarat (9-15 luglio 2018), la nuova manifestazione dedicata al cinema mediterraneo creata dalla produttrice Dora Bouchoucha con il sostegno del Centre National du Cinéma et de l’Image Animée e dell’Institut Français di Tunisi.

Un’opera prima ambiziosa, quella della brillante sceneggiatrice e regista trentanovenne – natali a Orano e un presente diviso tra il Maghreb e la Francia. Un film corale dalla scrittura precisa ed elegante, ambientato nel 2008 in una Algeri mesta e immobile, che la macchina da presa, come una lama, divide in due, separando le frustrazioni politiche e le crisi sentimentali dei padri dal vagare senza meta e scopo dei figli. Da una parte cinquantenni che si rinchiudono in fumosi appartamenti a bere, chiacchierare di massimi sistemi e rinfacciarsi le rispettive contraddizioni, e dall’altra adolescenti sospesi tra nichilismo e rassegnazione. Da un lato Samir (Sami Bouajila), medico, e Amal (Nadia Kaci), professoressa universitaria, tipici esponenti della classe media occidentalizzata, ormai sull’orlo della separazione a causa della volontà di lei di partire per l’Europa insieme al loro unico figlio Fahim (Amine Lansari), e dall’altro quest’ultimo che, con gli amici Feriel (Lyna Khoudri, miglior attrice di Orizzonti 2017) e Reda (Adam Bessa), si trascina indolente.

Su di loro, lo spettro della lunghissima e cruenta guerra civile algerina, iniziata nel 1991 e terminata, nel sangue, oltre un decennio più tardi. Un passato ingombrante e tossico che sembra unire nella sconfitta tutti i destini di un paese ferito.

The Blessed è un film molto ambizioso. La struttura è sempre stata così, corale, sin dall’inizio o hai aggiunto delle linee narrative a mano a mano che scrivevi?

Alla base c’è un mio racconto breve, che ho adattato. In principio i personaggi principali erano la coppia e Fahim – più in secondo piano, invece, il poliziotto. Quando ho iniziato l’adattamento ho deciso di tradire il racconto, perché volevo dare vita ai miei personaggi: mi sono chiesta se avessero degli amici, sia i genitori sia il figlio, e questo ha aggiunto linee narrative. Poi mi sono resa conto che avevo adulti e giovani, e che dunque avrei potuto  lavorare sui conflitti generazionali. Ho scoperto la storia mentre scrivevo… E’ stato un processo molto semplice e spontaneo per me.

Avevi dei riferimenti cinematografici precisi?

Be’, è bizzarro, perché i titoli a cui pensavo sono molto diversi da quello che poi è diventato The Blessed: Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols, soprattutto per via della coppia in crisi, Una separazione di Asghar Farhadi, Mean Streets e Taxi Driver di Scorsese e i lavori di Robert Altman, per la struttura. E poi Nahla dell’algerino Farouk Beloufa, in cui il personaggio principale è Beirut. Tutto questo mi ha permesso di nutrire il mio film.

Volevi che Algeri fosse il cuore.

Sì, decisamente.

E’ la tua città?

In realtà sono nata a Orano e per un po’ ho vissuto a Béjaïa, nell’Algeria orientale, vicino al mare. Però la mia città, per me, è Algeri.

Hai citato i conflitti generazionali. E’ significativo che, nel tuo film, come in quelli di altri registi maghrebini della tua generazione o addirittura più vecchi, il conflitto non sia quasi mai esplosivo, violento. Genitori e figli si scontrano, ma il loro è un conflitto tutto interiore, che non si esprime attraverso gesti o prese di posizione eclatanti.

Sì, è un conflitto interiore. Io ho cercato di rappresentare una tensione. Una tensione che potrebbe condurre a un’esplosione, ma che alla fine si esaurisce senza. E il fatto che l’esplosione alla fine non ci sia rende questa tensione persino più violenta, e crea un senso di nichilismo diffuso.

Parleresti di nichilismo a proposito della tua generazione in Algeria?

Molti giovani algerini sono così: nichilisti. Non pensano al futuro, cercano solo di fare i conti con l’esistente, senza manifestare grandi ambizioni o aspettative.

Tutto il contrario dei loro padri e delle loro madri.

I giovani che mostro nel film sono nati durante la guerra civile – o avevano dieci anni al massimo in quel periodo. I loro genitori, invece, hanno avuto una vita diversa: erano già trentenni, erano attivisti, pieni di dialettica politica, e avevano grandi sogni. La loro è stata la generazione delle aspettative e dell’ideologia.

Hanno anche una forte consapevolezza storica.

Avevano vent’anni quando il Muro di Berlino è crollato: sono stati testimoni dei grandi cambiamenti politici del mondo, della fine della contrapposizione tra Usa e Urss – in realtà uno scontro molto più complicato e articolato, anche se la sensazione era che ci fosse un Occidente e un Oriente.

Molto più complicato, in particolare, per voi africani.

Sì, perché noi arabi del Maghreb siamo anche mediterranei… Sai, l’Africa è qualcosa di completamente diverso. In generale siamo in mezzo, tra parentesi, a metà strada tra la parte occidentale e quella orientale del mondo. In Algeria, poi, eravamo molto vicini all’Urss, ma nonostante questo, storicamente, abbiamo sempre avuto una grande attenzione verso ciò che accadeva in Francia.

In tutto questo, i cinquanta-sessantenni algerini di oggi, che un tempo guardavano all’Occidente, si sono risvegliati dopo la guerra civile con un misto di delusione e, direi, senso di colpa.

E infatti questo è il loro problema principale: i giovani li fanno sentire in colpa.

Il modo in cui i tuoi due gruppi di personaggi affrontano la società è molto diverso, quasi opposto. E’ ancora una volta una differenza generazionale.

Fahim e i suoi amici cercano di essere discreti, di scomparire, di negoziare con la realtà della società. Si sentono in colpa a essere diversi, perché la diversità li mette ai margini. Samir e Amal rivendicano invece l’appartenenza al paese, perché hanno combattuto per esso.

Hanno combattuto però hanno anche ceduto al compromesso.

Assolutamente. Ed è il motivo per cui la questione ideologica dei genitori non ha alcun senso per i loro figli. In più i giovani sono sempre fuori, per le strade, mentre gli adulti vivono rinchiusi, spostandosi costantemente da un appartamento all’altro – il primo titolo del film, non a caso, era À l’intérieur: Dentro. Sono persone che troviamo anche in Europa: les gens de salon. Nostalgici di un mondo che in realtà non è mai esistito.

Come giudichi il loro tradimento degli ideali politici giovanili?

No, non li voglio giudicare. Non giudico, perché si è forzati a tradire: è la vita. Il loro problema era pratico: tradire o morire. Ciò che rende patetici Samir e Amal è semmai il fatto che pensino ancora in termini idealistici.

Fahim, Feriel e Reda, invece, non sembrano nemmeno avere qualcosa da tradire.

La troveranno! (ride) Si tradisce sempre: se non un ideale, un amico o qualcosa che volevamo e che non ci siamo sforzati abbastanza per ottenere. Il problema è semplicemente accettare che non siamo così coraggiosi, così eroici… Io odio gli eroi. Gli eroi, per me, sono noiosi. Probabilmente questo è dovuto a come siamo cresciuti in Algeria, con il mito dei martiri, dei combattenti per la rivoluzione e bla bla bla…

La Battaglia di Algeri.

Alla lunga era così difficile da sostenere! Sono felice di aver potuto dire a Djamila Bouhired (celebre militante del FLN algerino, ed ex moglie di Jacques Vergès ndr), qualche mese fa: “Sei troppo pesante da sopportare. Quelli come te mi fanno sentire in colpa.”  (ride)

La classe media al centro di The Blessed è piuttosto interessante. Gens de salon, come dicevi, ma non una vera borghesia. Ex attivisti, ma non certo paragonabili ai giovani combattenti della guerra contro i Francesi.

E’ una classe media, ma non una vera e propria borghesia – una borghesia simile a quella francese, almeno. E’ una classe medio-alta. Non sono intellettuali, perché le élite intellettuali producono senso. Samir e Amal sono un dottore e una professoressa universitaria: comprendono i problemi della società e le grandi questioni filosofiche, ma si limitano a reagire a tutto questo come una coppia in crisi. L’unica cosa che li rende davvero problematici è l’aver vissuto la guerra civile. Per il resto, la loro è la storia piuttosto normale di due persone che, dopo anni passati insieme, cercano di capire quale bugia rivendere a loro figlio. Se dovessi riassumere il mio film, direi infatti che è basato sulla crisi di una coppia dopo vent’anni di matrimonio e sul conflitto tra generazioni in Algeria dopo la guerra civile.

 L’Algeria è un paese di cui si sa pochissimo. Siete come isolati dal resto del Mediterraneo.

Decisamente. E’ un paese molto opaco. E la gente è spaventata a venire da noi: hanno la sensazione che sia pericoloso. Cosa che, sì, è vera, ma fino a un certo punto… Quando ci sono stati gli ultimi attentati in Francia, mi sono sentita molto più in pericolo a Parigi, e infatti da lì sono tornata ad Algeri. E’ una questione di punti di vista. Penso che i giovani, che oggi escono molto più che in passato, sentano il paese come complessivamente più sicuro, mentre a livello politico, sociale ed economico, non credo che nemmeno il governo sappia cosa stia succedendo davvero.

Come vedi il futuro per il tuo paese?

Credo nella movida. Sono certa che in Algeria ci sarà una movida – o qualcosa di simile. Siamo alla fine di un ciclo.

Avrete la vostra primavera araba in ritardo, insomma.

Non parlo di primavere arabe. E’ qualcosa che ha a che fare con la cultura. Molti ragazzi e ragazze, per esempio, stanno iniziando a distaccarsi dalle istituzioni e a produrre arte per conto loro – la democratizzazione data dalla tecnologia, in questo, aiuta molto. Dipende da quale punto osservi la società. Se parlassi con me o con Merzak Allouache di un argomento specifico riguardante l’Algeria di oggi, probabilmente ti risponderemmo che è un disastro e che il paese è fottuto. Ma cinque minuti dopo ci verrebbero in mente altre cose positive e ci troveremmo a fare un bilancio e a riconoscere che la situazione non è monolitica, statica. E che anzi si muove: le cose si muovono. Essendo un’ottimista, preferisco vedere questo movimento.

E’ un mood in parte diverso da quello del tuo film.

Certo, perché The Blessed appartiene alla mia generazione: si svolge nel 2008. Ma il suo mood non è poi così negativo, non è pessimistico. Volevo fare un film in cui ci potessimo rivedere, specchiare. E alla fine, anche se sembra che stiano per scoppiare come coppia, Samir – poiché la ama – dice ad Amal di partire. E’ una fine positiva: per amore si separeranno! (ride) Il capitolo è chiuso, ma io stessa non so se poi lei partirà per la Francia oppure no… A volte penso di sì, e a volte la vedo tornare alla sua vecchia quotidianità.

 

 

 

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