Valletta Film Festival 2017 – Donna contro: intervista ad Agnieszka Holland

di Massimo Lechi.

Uno dei picchi del Valletta Film Festival 2017, organizzato per il terzo anno consecutivo nella capitale maltese dalla Film Grain Foundation, è stato senza ombra di dubbio l’arrivo sull’isola di Agnieszka Holland. Ironica, combattiva e brillante come sempre, la regista polacca non si è risparmiata con pubblico e giornalisti locali, trasformando in un importante evento mediatico il passaggio in concorso del suo Spoor, già vincitore dell’Alfred Bauer Prize all’ultima Berlinale in febbraio.

Parte thriller grottesco e parte fiaba ecologista, il film è un racconto diseguale, dalle disturbanti atmosfere pre-apocalittiche, che racchiude in sé innumerevoli artifici di scrittura e cambi di registro. Protagonista è l’anziana Duszejko (Agnieszka Mandat) che, dopo la misteriosa scomparsa dei suoi cani, diventa testimone dei macabri omicidi dei cacciatori del suo villaggio – tutti uomini, alcuni dei quali compromessi con il potere politico e con quello criminale. Difficile, persino per uno spettatore poco attento, non ritrovare nella tenace investigatrice sciamana alcuni tratti della stessa Holland, oggi più che mai artista controversa, bersaglio di veementi attacchi a mezzo stampa in un paese dominato dal conservatorismo del partito Diritto e Giustizia.

E proprio la complessa situazione politico-culturale della Polonia è tra i temi al centro del dialogo che segue, una sintesi della lunga e vivace conversazione pubblica durante cui l’autrice di Europa Europa (1991) e In Darkness (2011) ha potuto riflettere anche sugli oltre quarant’anni della sua ricchissima carriera e sul precario stato del cinema occidentale.

 

In un’intervista del 1997 hai dichiarato che i giovani registi di allora, essendo privi di sufficienti esperienze di vita, producevano film convenzionali e senza umanità. Dopo vent’anni hai ancora la stessa sensazione?

Beh, sì e no… Penso che la giovane generazione di filmmaker comprenda che il lavoro non è solo una bolla protetta e confortevole dove l’occupazione più eccitante è la consunzione. E che non viviamo fuori dalla storia. Perciò credo che la situazione sia leggermente diversa. Lo si vede anche nei film – o almeno in alcuni. Non penso solo ai contenuti politici, praticamente assenti vent’anni fa, ma anche alla sensazione di non essere isolati, di vivere in un momento in cui tutto può cambiare molto rapidamente e in cui poche cose dipendono dalla nostra scelta – e fare film è certamente una scelta.

 

Pensi che la grande crisi economica abbia avuto un ruolo in tutto questo?

E’ probabile. Sicuramente viviamo in un mondo in cui può accadere di tutto…

 

E in cui l’Occidente si è ridimensionato.

Fragile, è molto fragile. E questa fragilità diventa esperienza personale per i più giovani. Ma devo dire che guardando molti film europei – e da presidente del board dell’European Film Academy ne ho visti a centinaia negli ultimi anni – la prima impressione che ho è che sia sempre lo stesso film… Della serie “le beaujolais nouveau est arrivé”. Non che i registi manchino di talento, ma escono raramente dalla comfort zone, ed è per questo che i loro film non hanno lo stesso impatto che avevano quelli della generazione di autori precedente alla mia. C’è qualcosa di sbagliato. Forse è diventato troppo facile girare un film, forse non si pensa più a fare cose in grado di toccare un pubblico più grande di quello dei festival.

 

Un senso di déjà-vu lo dà anche il cinema dell’Europa orientale, che pure va molto bene ai festival. Sono sempre film claustrofobici, crudi, privi di speranza e respiro, capaci solo di rappresentare il mondo come prigione dell’anima. In quelle società, a parte il colore dei passaporti, non pare essere cambiato assolutamente nulla: i problemi di ieri sono i problemi di oggi.

No, non penso sia così. Stiamo affrontando una situazione che è completamente diversa, anche se possiamo trovare delle analogie con alcuni decenni del secolo scorso – non so, con gli anni Cinquanta. Ma non mi ricordo di qualcosa come la Brexit o Donald Trump, che pure non sono comparsi dal nulla. Non mi ricordo qualcosa come i milioni e milioni di migranti e rifugiati che stanno cercando di raggiungere l’Europa, o le reazioni delle società europee al fenomeno. Non mi ricordo di un cambiamento così profondo nella demografia dell’Europa, che è legato alla condizione delle donne e alla controrivoluzione – non nei paesi islamici, ma in Polonia, Ungheria o America – che si oppone alla loro emancipazione. Non mi ricordo di un momento in cui si sia vissuti sotto la costante pressione del governo russo come adesso, con le guerre informatiche e le intromissioni degli hacker negli affari di paesi stranieri. La rivoluzione informatica, per me, è paragonabile a quella industriale o all’invenzione della stampa – e se ricordi bene, pochi anni dopo Gutenberg ci furono Lutero e le guerre religiose. Poi certo, ci sono cose come la burocrazia, la debolezza dei governi, la crisi delle democrazie liberali o la delusione dei paesi ex-comunisti per non essere stati in grado di arricchirsi quanto volevano e per il fatto di essere rimasti periferici…

 

Torniamo al tema dell’esperienza di vita. Tu hai vissuto in prima persona alcuni degli eventi più traumatici del Ventesimo secolo, come per esempio l’invasione russa di Praga nel ’68. E ne hai subito le conseguenze: dopo il colpo di stato militare in Polonia nell’81, infatti, sei andata in esilio in Francia. Ti sei mai soffermata a pensare a quanto e a come la tua vita privata e artistica sia stata influenzata dalla storia, quella con la S maiuscola?

Sì, ma non è stata una storia così tragica. Ho passato del tempo in prigione, ho avuto dei problemi con la censura, che mi stava rendendo la vita davvero infelice, e sono stata costretta a emigrare dal mio paese… Ma io sono sempre stata curiosa, perciò tutto ciò che mi è capitato, anche se doloroso, mi ha in qualche modo arricchita e formata. Non penso di aver vissuto qualcosa di estremo. Ho girato tre film ambientati durante la seconda guerra mondiale e incentrati sull’Olocausto, e ne ho scritti altri sullo stesso argomento per registi diversi – Wajda, per esempio. La lavorazione di un film occupa due o tre anni della tua vita, dunque ho passato nella realtà dell’Olocausto sei o sette anni, che è più di quanto sia durata la seconda guerra mondiale. Questo, credo, mi ha cambiata ancora di più, perché mi ha dato una prospettiva diversa sulla natura umana, sulle cose e sugli eventi. Sono stata influenzata più da qualcosa che ho realizzato come finzione che da qualcosa che ho vissuto nella vita reale.

 

I registi con cui hai lavorato hanno avuto un ruolo decisivo nella tua maturazione artistica? Penso a Wajda, a Zanussi …

Wajda di sicuro: è stato un rapporto molto intenso. Zanussi anche. E un collega polacco importante per me è stato Krzysztof Kieślowski… Vedi, le persone che incontri cambiano il tuo percorso.

 

In Polonia, tra gli anni Cinquanta e Settanta, è emersa con prepotenza una serie irripetibile di personalità, di grandi registi… Tutti uomini.

Esattamente.

 

Wajda, Kawalerowicz, Zanussi, Polanski, Skolimowski, Kieślowski… e Agnieszka Holland.

Beh, non posso farci nulla (ride).

 

Quanto era difficile per una donna della tua generazione lavorare nel cinema? Hai iniziato come assistente, dopo aver studiato alla FAMU in quella che allora era Cecoslovacchia.

Non avevo problemi con la misoginia, forse perché ne avevo con il governo comunista – come tutti. Essere una donna era meno importante che essere un nemico dello stato. E inoltre ero sostenuta dai colleghi maschi, nonostante il mio sesso. Ora, con il tempo e l’esperienza accumulata in altri paesi, e avendo seguito i percorsi delle registe della mia età, vedo che è difficile per una donna raggiungere un certo livello in questa professione… Quando ho iniziato, la mia prima volta sul set, per un telefilm, giravamo a Łódź e io assistente dovevo imporre il silenzio. Chiedevo a tutti, molto gentilmente, di abbassare la voce, ma senza successo. Nessuno mi dava retta. Alla fine mi misi a urlare: “State zitti, brutti stronzi!” E funzionò. Il production manager, un tipo molto esperto, abituato a grandi budget, venne da me e mi disse: “Agnieszka, tu diventerai un regista.” Dopo alcuni anni, i filmmaker polacchi iniziarono a dire che i miei film sembravano diretti da un uomo o che io ero l’unica persona con i pantaloni nel gruppo di Andrzej Wajda. Subito mi fece piacere, ma poi iniziò a darmi fastidio. Non sono un uomo e non ho l’ambizione di esserlo: il mio punto di vista è diverso, la mia sensibilità è diversa, le mie esperienze di vita sono diverse – sono una madre, per esempio. Vedo il mondo da una prospettiva diversa, e penso sia una cosa buona. Metà del pianeta è donna e quindi anche metà degli artisti che si esprimono dovrebbero essere donne. Ma non è ancora così: siamo intorno al 7%.

 

Cosa pensi della foto dei registi vincitori della Palma d’oro sul tappeto rosso di Cannes? Anche lì c’era una sola donna, Jane Campion. E’ un’immagine forte, che ha suscitato un dibattito molto duro.

Qualcosa sta cambiando. Ma la strada è ancora lunga… Semplicemente mi rifiuto di credere che le donne abbiano meno talento. E’ falso.

 

Da tempo lavori negli Stati Uniti, soprattutto in televisione. Quali sono le principali differenze rispetto all’Europa?

In America il set è silenzioso, non devo urlare. Lì la realizzazione dei film è un’importante realtà economica, mentre in Europa è ancora qualcosa che dipende dai fondi pubblici e che è legato all’autorialità. Personalmente preferisco l’idea europea di cinema, ma ne vedo i pericoli. Allo stesso modo posso trarre vantaggio dall’idea americana di cinema, e vederne i pericoli. Il motivo per cui, negli ultimi dieci anni, ho fatto molta televisione è che la televisione è migliore. Il cosiddetto “cinema di mezzo” – personale, che affronta soggetti complicati, ma che sa essere accessibile – è scomparso. Prima è morto in Europa e poi negli Stati Uniti, perché troppo rischioso economicamente. La televisione ambiziosa ha occupato questo spazio. A volte è stereotipata e a volte no, ma i prodotti più riusciti sono davvero eccitanti.

 

E quando torni in Polonia? Com’è la situazione per una regista come te nel tuo paese? Da quando la destra è al potere sei diventata molto controversa…

Non è l’espressione giusta.

 

Beh, diciamo che ho usato un eufemismo… Il partito Diritto e Giustizia ti ha attaccata duramente in questi anni, e tu hai fatto altrettanto con loro. Anche Spoor è stato criticato dalla stampa filo-governativa sin dall’anteprima berlinese. In un clima come quello della Polonia di oggi, è più difficile per un’artista donna esprimersi e affermarsi oppure no?

No, la maggior parte dei registi è molto solidale e non ama questo genere di censure e di stronzate nazionalistiche. Quindi, uomini o donne…

 

Siete tutti sulla stessa barca.

Esatto.

 

Siete nemici in quanto artisti.

Sì… A volte per un artista non è male avere un grande nemico. Ti sveglia.

 

Secondo alcuni è addirittura necessario. Io stesso mi sono chiesto più volte se l’avere un qualcosa a cui opporsi non sia la miglior fonte d’ispirazione, tanto al cinema quanto in letteratura.

Non penso sia necessario. Un po’ di adrenalina aiuta, così come il vedere la durezza della vita o l’essere costretti a prendere posizione. Ma se davvero hai talento, non ne hai bisogno. Se invece ne hai solo un po’, allora può essere utile.

 

 

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