“Il permesso – 48 ore fuori” di Claudio Amendola

di Aldo Viganò.

Tre stagioni dopo il suo esordio alla regia con il fragile (ma a suo modo divertente) La mossa del pinguino, Claudio Amendola torna a cinquantaquattro anni dietro la cinepresa, firmando un thriller che coniuga contemporaneamente ambizioni autoriali e moralistiche ingenuità da neofita, nonostante la collaborazione per la scrittura dello smaliziato Giancarlo De Cataldo, che al cinema italiano aveva già dato, tra l’altro, i più maturi soggetti di Romanzo criminale e di Suburra.

Riservando per sé l’interpretazione del personaggio di un boss della malavita che sembra derivare direttamente – pur intenerito dalla paternità e da quasi vent’anni di galera – da quel “Samurai” cui come attore aveva dato vita in Suburra, Amendola racconta qui le 48 ore di libera uscita di quattro detenuti del carcere di Civitavecchia: due anziani induriti dalla vita dentro e fuori dalla patrie galere e due giovani balordi appartenenti a classi sociali molto differenti, ma che insieme scopriranno nel corso del film di essere ancora in grado di sognare un futuro migliore.

Storie di vecchi gangster e di giovani malavitosi, quindi. I primi sempre consapevoli di sé, gli altri indotti sovente ad agire solo dalle circostanze o dal caso, oltre che dagli ambienti molto diversi in cui sono cresciuti.

Il silenzioso e nerboruto Donato (Luca Argentero) vuole in quelle poche ore di libertà ritrovare la moglie caduta nelle mani di un malavitoso (il sempre efficace Antonino Iuorio), il quale dapprima lo costringe a vincere per lui un incontro di boxe clandestina e poi lo pugnala, affidando ai suoi sgherri l’incarico di dargli il colpo di grazia; Donato riesce comunque a sopravvivere, anche se, dopo la vendetta, il suo futuro non potrà che spegnersi, in riva al mare. Una sorte simile, anche se più esplicitamente votata al fallimento, è quella che il film riserva a Luigi (Claudio Amendola), il cui sogno di pace domestica viene infranto dal figlio che, mitizzando il passato “eroico” del padre, ha fatto uno “sgarbo” all’ex compagno di tante imprese criminali di Luigi, il quale si trova ora costretto a tornare in azione; imparando a sue spese che i tempi sono ormai cambiati.
Pur alquanto schematici nello svolgimento, questi due personaggi di perdenti, provenienti dal tempo ormai passato di una mitica malavita, dove contano i valori morali individuali, rappresentano la componente più interessante di un film troppo sovente incerto nelle sue scelte estetico-narrative, che Amendola e De Cataldo, forse per convinzione, ma forse anche per eccesso di moralismo, finiscono poi, con l’indirizzare verso esiti conformistici. Con il risultato che, dopo di aver dato il loro tributo al passato, essi finiscono per premiare il futuro dei “giovani” che quel giorno sono usciti dal carcere in contemporanea con gli “anziani”.
Sono due ragazzi provenienti da ceti sociali molto diversi. Lui, Angelo (Giacomo Ferrara) è un romano di periferia che fuori del carcere ritrova gli amici “buzzurri” di un tempo e si lascia da loro trascinare nel progetto di un colpo in banca; mentre lei, Rossana (Valentina Bellè), confida di trovare nella sua ricca famiglia le risorse per fuggire all’estero, dopo di essere finita in galera per importazione di molti chili di cocaina. Un po’ per caso e un po’ per reciproca attrazione, i due si trovano dapprima a fare l’amore con la sventatezza dell’età, poi provano una poco motivata assonanza sentimentale nel nome dei giardini all’italiana studiati da lui in prigione, e quindi si avviano verso un poco probabile happy-end, che nell’insieme dei quattro episodi intrecciati serve soprattutto a certificare l’ovvietà che il futuro appartiene ai giovani e non agli uomini dal forte passato, anche se questi sono ancora con un virile presente.

Certo, soprattutto in considerazione della lunga esperienza cinematografica di Amendola (il suo esordio come attore di film popolari risale al 1983), ci si poteva aspettare di più dal suo debutto in veste di regista di un thriller; e magari era legittimo attendersi anche qualcosa di più inventivo dall’apporto narrativo di uno sceneggiatore ormai di lungo corso quale De Cataldo. Ma in fin dei conti sembra essere questa la qualità media che offre oggi il cinema italiano di “genere”.

Forse, conforta solo constatare che, nonostante queste sue numerose fragilità estetiche e drammaturgiche, Il permesso resta comunque un film che prova almeno a cimentarsi su un terreno narrativo classico, senza ricorrere agli stilemi in voga tra le opere (tra quelle attualmente in distribuzione in Italia, basti citare il noioso e super premiato thriller spagnolo La vendetta di un uomo tranquillo che ha segnato l’esordio alla regia dell’attore Raul Arévalo, cresciuto alla scuola di Almodovar) che ostentano uno sguardo rivolto verso i frequentatori dei festival e dei pochi sopravvissuti cinema d’essai, piuttosto che cercare con lo spettatore una via di comunicazione che passi direttamente attraverso la specificità del linguaggio cinematografico, della cui esistenza (almeno) Amendola sembra essere consapevole: seppure alla lontana.

 

IL PERMESSO – 48 ORE FUORI
(Italia, 2017) Regia: Claudio Amendola – Soggetto: Giancarlo De Cataldo – Sceneggiatura: Giancarlo De Cataldo, Roberto Jannone, Claudio Amendola – Fotografia: Maurizio Calvesi – Musica: Paolo Vivaldi – Montaggio: Roberto Sicignano. Interpreti: Luca Argentero (Donato), Claudio Amendola (Luigi), Giacomo Ferrara (Angelo), Valentina Bellè (Rossana), Valentina Sperlì (Charlotte, la madre di Rossana), Antonino Iuorio (Sasha). Distribuzione: Eagle Pictures – Durata: un’ora e 31 minuti

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