La forma e il sentimento


di Claudio G. Fava.
Claudio G. Fava ricorda Renato Castellani (1913-1985), regista di grande finezza visiva e drammaturgica, vincitore a Cannes con “Due soldi di speranza”e a Venezia con “Giulietta
e Romeo”.

È difficile far capire oggi ad un giovane che cosa ha rappresentato, nell’immediato dopoguerra, l’opera e la presenza di un regista come Renato Castellani (1913-1985). Certo non fu l’unico, in quel momento, ad addensare su di sé stimoli, simboli, desideri, aspirazioni di un’intera generazione. Ma certamente fra gli autori che si avviarono alla regia fra la guerra e la fine della guerra, fu uno dei più sottili e dei più toccanti. Come è noto nel 1941 egli, già sceneggiatore e aiuto regista di Genina, Soldati, Blasetti, riuscì ad esordire in proprio con un film rimasto esemplare di un intero periodo: Un colpo di pistola, liberamente tratto da un racconto di Puškin e interpretato da Fosco Giachetti e Assia Noris, celebrati divi d’epoca. Il film fu uno dei più noti fra quelli che allora, con un aggettivo sospeso fra l’elogio e la deprecazione, vennero definiti “calligrafici”. In effetti fu un’ opera di grande eleganza formale e sostanziale. In cui usi e costumi di una ottocentesca aristocrazia zarista erano rievocati con grande applicazione e scrupolosa intenzione storica. La sceneggiatura fu di Mario Bonfantini, dello stesso Castellani, di Mario Soldati e di Corrado Pavolini (il padre di Francesco Savio, che ha squisitamente rievocato costumi e persone della Cinecittà di allora). È doveroso ricordare che i costumi furono di Maria De Matteis, e che Nicola Benois fornì una complessiva e positiva consulenza artistica. Poi a cavallo fra guerra e dopo guerra vennero altri tre film, fra cui Zazà con Isa Miranda e nel 1946 Mio figlio professore con un giovanissimo Giorgio De Lullo e con un toccante ed eccezionale Aldo Fabrizi. Il quale nei panni di un bidello fedele, vede suo figlio diventare professore nello stesso liceo dove egli ha lavorato tutta una vita. E’ un’operetta in un qualche modo indimenticabile, dove, fra le comparse di lusso figurano Flaiano, Patti, Diego Calcagno, Monelli, Baldini e, nei panni di un insegnante bonariamente beffardo, un autorevolissimo Mario Soldati. È un film pateticamente pieno di tenerezza che ci ha legato per sempre a Castellani. Poi subito nel dopo guerra arrivarono i tre titoli di una trilogia in parte furbescamente romana e romanesca- Sotto il sole di Roma, È primavera, Due soldi di speranza– dove anche i personaggi e gli ambienti toscani e siciliani sono restituiti dal regista con l’affettuosità distaccata di uno che, come dicono i romani, viene dall’ “Alta Italia”. Dopo di allora la carriera di Castellani continuò con opere di tutto riguardo, incoraggiato anche da premi di alto livello: nel 1952 con Due soldi di speranza vinse il Grand Prix ex-aequo al Festival di Cannes, nel 1954 con Giulietta e Romeo il Leone D’Oro alla Mostra di Venezia. Fra gli altri titoli da ricordare ci sono, forse, Nella città l’inferno (1958), Il brigante (1961) e il pur inconcluso Questi fantasmi (1967). Ma è certo che la quiete e raffinata eleganza, che contraddistinse l’arrivo di Castellani nel cinema italiano in un momento di grande saldatura fra gli anni di guerra e gli anni di pace, via via divenne più opaca sino quasi a dissolversi completamente.
La sua personale avventura nel mondo fu abbastanza curiosa: figlio di italiani emigrati in Argentina, venne fatto nascere in Italia dalla madre che voleva ad ogni costo un figlio italiano. E per l’avvenimento venne prescelto Varigotti (una frazione, sempre ribelle, di Finale Ligure, in provincia di Savona) dove i Castellani avevano, forse occasionalmente, dei parenti. Il piccolo Renato fu subito riportato in Argentina ove crebbe a Rosario di Santa Fe, terza città dell’Argentina (ma che nel mondo è ormai conosciuta perché è la patria di Messi e della sua bizzarra squadra di provenienza, il “Newell’s Old Boys”). A dodici anni venne riportato in Liguria ed esattamente a Genova dove termina il liceo. Poi andò a Milano a laurearsi in architettura ed infine, come tanti cineasti nostrani, fu imperiosamente chiamato e richiamato da Roma.
Confesso che ho sempre avuto per Castellani un piccolo posto nel cuore, con quella sorta di affetto che molti cinefili nutrono per un regista, magari non il migliore in assoluto ma ricco di tante piccole doti toccanti. Si capirà il mio stupore, fra l’imbarazzo e l’ammirazione, quando mi capitò, quasi casualmente di conoscerlo di persona. Ero a Cannes, credo fra il 1982 e il 1984, in uno degli abituali viaggi di lavoro per conto della Rai (o durante un Festival del cinema o durante uno dei due grandi mercati televisivi che hanno luogo annualmente nella cittadina della Costa Azzurra) e fu invitato ad una delle solite cene obbligatorie in casi del genere. Alla mia destra c’era un signore italiano che non conoscevo e con il quale, con l’automatismo tipico degli incontri obbligatori al tavolo dei ristoranti, comincia a chiacchierare così come in casi del genere viene istintivo sgranocchiando automaticamente i grissini. Debbo avergli detto, ma non so perché, che ero di Genova e allora quel signore si mise a parlare perfettamente in genovese. Ero sbalordito ma poi lo persi di vista e non lo ritrovai mai più. In piccolissima parte mi sono sdebitato con lui consegnando ogni anno, al Festival del Doppiaggio Voci nell’Ombra la targa di vincitore del Premio Castellani a un ligure che si era distinto nel mondo dello spettacolo.

 

Postato in Centenari, Numero 100.

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