Il mancato rinnovamento del cinema italiano

Negli ultimi sei anni il cinema italiano è stato in grado di smentire nuovamente la ricorrente diceria di barcamenarsi in una sostanziale crisi; un risultato raggiunto per merito di alcuni primati al box office scaturiti dal novero di un sostanzioso gruppo di commedie, alcune delle quali contraddistinte da un veramente inaspettato successo.

Sul piano del consolidamento commerciale della nostra industria cinematografica è stata una piacevole sorpresa, ma il gradito fenomeno non ci esime pur tuttavia da una doverosa riflessione in merito alla constatata modesta rilevanza artistica e di mestiere di gran parte dei suoi artefici.

Abbiamo assistito ad una messe di nuovi film che, pur non volendo pretendere risultati straordinari , ha mostrato di situarsi ad un sostanziale ben scarso livello qualitativo, al punto di non mostrare chiari segni di un qualche rinnovamento atto ad una proficua evoluzione neppure della produzione di serie B. Queste commedie, che non sono apparse capaci di aggiornare il filone commerciale di appartenenza, tanto meno hanno portato un qualche contributo di generale novità all’intero panorama filmico. Un’esigenza, quest’ultima, particolarmente agognata da una cinematografia oggi notoriamente caratterizzata da una particolare transizione, che vede nuovi riconosciuti talenti da potersi contare sulle dita di una mano e autentici maestri ancora in attività in gran parte gravati da congrui limiti di età.

marco tullio giordana

Marco Tullio Giordana

Il consenso verso le nuove commedie si è verificato quasi in concomitanza con il progressivo spegnersi più che comprensibile, e da tempo auspicabile, dell’entusiasmo della platea verso i cosiddetti cinepanettoni; il pubblico ha comunque confermato le sue preferenze nei confronti di opere totalmente disimpegnate, mentre film di notevole valore sociale e indiscussa qualità (ultimo esempio, “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana) hanno al contrario registrato incassi sconfortanti. Con tutta probabilità è principalmente l’odierno disagio della società che spinge, oggi più che mai, gli spettatori verso prodotti scacciapensieri.

E’ di sicuro una fortuna che gli introiti dei cinema siano lievitati e non bisogna affatto scandalizzarsi se questo sia avvenuto grazie a delle commedie, che sono da molto tempo uno dei pilastri principali della nostra cinematografia; quello che dispiace è che il merito di tale successo sia attribuibile a commedie da subito volutamente collocatesi su un piano di trascurabili pretese contenutistiche e formali, con l’unico apparente obiettivo di essere meno volgari delle goliardate interpretate da De Sica junior e dal suo prima sodale e poi rivale Boldi. Un manipolo di film semplicemente scritti e girati con un certo garbo principalmente da ex “complici” dei vari Parenti e Vanzina: un nome per tutti Fausto Brizzi.

Fausto Brizzi

Fausto Brizzi

E pensare che queste commedie di limitate ambizioni, oltre a trovare l’agognato consenso del pubblico, sono state pure spesso salutate da critiche favorevoli e , in alcuni casi, addirittura congruamente laudativa, in considerazione, probabilmente, del respiro che stavano offrendo ad un’ industria cinematografica che richiede incoraggiamento (anche, o soprattutto, in ragione del sempre malevolmente ventilato spettro della crisi).

Dopo l’iniziale, e a nostro avviso in gran parte malriposto, entusiasmo è così giunto il momento di verificare, almeno per quanto riguarda la critica, i confini reali di questa “rinascita”, sia per uno sconfortante, ancorché subitaneo, inaridirsi della vena in prodotti medi accolti con insolito favore dal pubblico (si pensi al penoso risultato del ripetitivo “Benvenuti al nord”di Luca Miniero, pur premiato dagli incassi, e del modesto respiro di “E’ nata una star?” di Lucio Pellegrini) sia per l’illuminante e ben motivato j’accuse lanciato da Paolo Mereghetti sul “Corriere della Sera” contro chi tacciava di snobismo coloro i quali si ergevano in favore della qualità nel cinema contrapponendola alla sciatteria.

Il punto del discorso può essere facilmente trovato confrontando i recenti prodotti della nostrana commedia con quelli siglati, dopo fulgidi esempi degli anni Cinquanta, principalmente negli anni Sessanta da registi come Monicelli, Germi, Pietrangeli, Risi e Scola. Ma ci si può addirittura limitare, per circoscrivere il discorso, ad un solo esempio: l’opera -culto della cosiddetta commedia all’italiana, “Il sorpasso” di Dino Risi, è certo una più che valida pietra di paragone. Un film che, essendo apparso nel 1962, compie ora ben cinquant’anni.

Per prima cosa vogliamo subito sgombrare il campo dalla panzana del destino che assicurerebbe a gran parte del cinema comico una quasi certa rivalutazione negli anni successivi alla sua produzione: teoria nata a seguito del più che opportuno ripensamento critico sulla “commedia all’italiana” e anche di quello a proposito di un attore straordinario, a suo tempo colpevolmente sottovalutato, come Totò.

Nessuno infatti potrebbe seriamente avanzare l’ipotesi che i film di Brizzi & company (meno che mai quelli del duo Vanzina-Patenti) e le interpretazioni, per fare un esempio, di Checco Zalone potranno mai trovare il doveroso sdoganamento critico dell’ormai consacrata “commedia all’italiana” e neppure delle interpretazioni di Totò.

Tuttavia, non dimentichiamo certo le miope, feroci critiche del tempo alle commedie anni Sessanta da parte di saggisti di gran nome; si pensi a quello che aveva scritto in merito Goffredo Fofi: “Nella commedia di costume se si escludono certe passabili sciocchezzuole di Pietrangeli e Risi il resto è un panorama di sconcia e gratuita volgarità che ha sommerso un po’ tutti i registi chiamati ad occuparsene”. Parole sciocche ed affrettate che sono state ampiamente contraddette e hanno fatto il loro tempo, appartenendo ad una visione politica miope e settaria applicata alle opere filmiche.

Su Totò la denigrazione , certificata attraverso migliaia di giudizi riduttivi, era stata confutata, tra l’altro dall’ammirazione e dalla stima che gli tributò Orson Welles, quando l’illustre regista e attore si contentò di fargli da spalla nel film “L’uomo, la bestia e la virtù”, salutando in lui un grande attor comico.

L’autentico sentimento del tempo è la prima qualità che differenzia “Il sorpasso” (e pure il precedente capolavoro “Una vita difficile”, straordinaria prova di Risi stesso e di Alberto Sordi) da commedie come, per fare qualche esempio non cronologico, dei film maggiormente baciati dal successo a partire dal 2006 fino ai giorni nostri: “Notte prima degli esami “, “Ex” e “Maschi contro femmine” di Brizzi, “Amore, bugie & calcetto” e “Oggi sposi” di Luca Lucini, ”Benvenuti al sud” di Luca Miniero,”Manuale d’amore” e “Genitori & figli-Agitare bene prima dell’uso” di Giovanni Veronesi, “Nessuno mi può giudicare” di Massimiliano Bruno, “Se sei così, ti dico sì” di Eugenio Cappuccio, “Immaturi” di Paolo Genovese (molti dei quali hanno avuto anche dei seguiti).

E’ nostra intenzione lasciare fuori dal discorso, stendendo un velo pietoso, gli exploit come interprete del citato Checco Zalone; un paio di film che hanno riscosso notevoli consensi al botteghino, dovuti, secondo noi, ad una moda scaturita più che altro da precedenti fortunate esibizioni in programmi televisivi (quindi siamo nell’ambito dei motivi extracinematografici) del nuovo comico.

Come altresì non mancheremo di riconoscere l’esistenza di qualche gradevole sorpresa nel generale squallore della “nuova ondata” di commedie, grazie ad opere di un certo pregio come “Uno su due” di Cappuccio, “Diverso da chi?” di Umberto Carteni , “La vita facile” di Lucio Pellegrini e “C’è chi dice no” di Giambattista Avellino. Sporadiche eccezioni situatesi ad un gradino di resa filmica appena superiore alla media delle altre commedie nuove e non certo sufficienti a destare eccessive speranze di vederle come fautrici di una possibile maggiore evoluzione del genere.

In qualche film di Brizzi e dei suoi seguaci si è fatto pure riferimento a concreti e scottanti fatti e situazioni dei giorni nostri, come problemi lavorativi, difficoltà nell’accettare lo straniero o il diverso e così via, però in un ambito di costante e voluta superficialità, con il proposito evidente da parte dei registi di mantenersi nell’ambito dello spettacolo assolutamente distensivo (infatti, tutti questi “autori” si sono premurati, ad esempio, di ignorare le notevoli tensioni politiche della nostra epoca).

Il sorpasso”, pur cercando di non darlo chiaramente a vedere ad una prima “lettura”, era al contrario una radiografia sociologicamente rigorosa dell’Italia del boom, portata avanti tra le pieghe delle inquietanti prodezze canagliesche di un personaggio lucidamente emblematico, con un giudizio di preveggente negatività nei confronti di un dichiarato e fallace benessere diffuso.

L’arcinota trama del film girava attorno a due tipi di uomini contrapposti, un estroverso e un introverso, che vivevano molteplici imprese on the road, percorrendo l’Italia da Roma a Castiglioncello e poi alla volta di Viareggio su una Lancia Aurelia sport supercompressa e decapottabile. Un viaggio iniziatico e di formazione per il più giovane e ingenuo, destinato ad un tragico epilogo, mentre l’improvvisato amico gradasso, caciarone e cinico durante la loro avventura in comune sfrenava la propria vitalità in mille imprese, in cui coinvolgeva l’ingenuo amico, per segretamente esorcizzare la certezza del suo fallimento esistenziale di uomo, padre e marito senza qualità.

Una storia che sulle ali della commedia di costume metteva in scena tutto un mondo, non tralasciando di disegnare indovinati, rivelatori personaggi di contorno e figurine significative dell’Italia del tempo, con sprazzi di evidenti segnali di morte che alludevano al drammatico risvolto finale, a suo tempo a torto ritenuto estraneo al carattere complessivo della vicenda narrata (si ricordino la scena di un incidente stradale, l’episodio del cimitero e così via): una costruzione narrativa che andava ben al di là delle semplificazioni consuete delle commediole odierne e che denotava l’impronta di un autore cinematografico di esemplare livello, ben lontano dai contenuti e dallo stile da fiction tivù e dalla lezione di facile intrattenimento, assolutamente disimpegnato, a cui si sono con leggerezza conformati i registi che hanno dato vita all’attuale momento roseo delle frequenze nei cinema.

Le commedie attuali si sono dimostrate atte anche a un buon riscontro di audience nelle programmazioni televisive, altro risultato favorevole ma pure ulteriore conferma della loro ibrida natura spettacolare, non consona certo a far ben sperare nella possibile nascita di una corrente di autentico rinnovamento del panorama specificamente cinematografico.

Anche i due interpreti principali, Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant , veri e propri mostri sacri,non possono essere paragonati a quelli utilizzati da Brizzi e compagnia (anche se molti più che dotati commedianti sono apparsi nei cast dei loro film e che nel terzo “Manuale d’amore” ha fatto una penosa comparsa addirittura Robert De Niro): Gassman ha trovato nel film di Risi la sua migliore occasione recitativa sullo schermo e Trintignant gli ha dato la replica con una sottile interpretazione ricca di chiaroscuri. In sostanza, oggi siamo proprio ben lungi dal ritrovare la magia cinematografica di quelli che il critico Lino Micciché definì “i meravigliosi anni Sessanta”.

Questo sconfortante panorama esclude ogni possibile rapporto , naturalmente, con la filmografia, benché qualitativamente altalenante, di un regista e attore giunto ormai alla piena padronanza dei propri mezzi artistici come Carlo Verdone (che ha pur valorizzato i “manuali” di Brizzi con la sua straordinaria presenza istrionica), una maturità magnificamente ribadita con l’ultima opera “Posti in piedi in Paradiso”; e un distinguo simile è opportuni farlo in riferimento alla filmografia e alla figura artistica di Paolo Virzì, l’unico autentico ed eccelso continuatore, se non rinnovatore, della tradizione gloriosa della maggiore “commedia all’italiana” (si pensi solo ai recenti gioielli “Tutta la vita davanti” e “La prima cosa bella”).

Riferendosi a Virzì e Verdone ogni paragone con Brizzi & company appare naturalmente impossibile, tuttavia se i nuovi registi fortunatamente salutati da un certo consenso di pubblico si allontanassero dalla fuorviante lezione dello “specifico” televisivo e cercassero di porsi sulla scia di questi maestri riuscirebbero forse a trovare finalmente la spinta per una svolta qualitativa che potrebbe opportunamente coniugare il plauso popolare con una concreta riuscita artistica.

(di Maurizio Cavagnaro)

Postato in Argomenti DOC, Varie.

I commenti sono chiusi.