“Cesare deve morire” di Paolo e Vittorio Taviani

cesare deve morireQuante buone ragioni ci sono per affrontare il complesso e densissimo “Cesare deve morire”, preferendolo ai numerosi titoli facili che affollano le sale di questo fine settimana? Tanto per cominciare il fatto che con questo prodotto ibrido a metà tra il documentario e il film tradizionale i fratelli Taviani hanno trionfato alla 62esima edizione del festival di Berlino, regalando al cinema italiano un successo che mancava dal lontano 1991. Si potrebbe poi suggerire che varrebbe la pena non perderlo perché si tratta di un’opera intensissima e di ardua lettura per la densità di temi e di strati che la caratterizza, ma anche per il coraggio dell’operazione che ne sta alla base. E cioè l’idea di filmare tutte le fasi dell’allestimento di una tragedia scespiriana all’interno della sezione di massima sicurezza del carcere romano di Rebibbia, con le parti dei vari personaggi affidate a detenuti le cui condanne sono ergastoli o pene lunghe quanto basta per mutilare ogni speranza di rifarsi una vita una volta usciti. Se poi queste ragioni non fossero sufficienti, ce ne sarebbe una comunque valida in assoluto. E cioè che l’arrivo nelle sale di “Cesare deve morire” celebra non solo un trionfo di prestigio in una delle più importanti vetrine festivaliere europee, ma saluta anche il ritorno dietro la macchina da presa di due ragazzi terribili che dall’esordio di “Un uomo da bruciare” del 1962 non hanno mai smesso di scrivere alcune tra le più significative pagine del nostro cinema d’autore.

La genesi dell’intero progetto merita di essere raccontata. Tutto è nato per caso, come spesso accade ai prodotti destinati a essere successi imprevisti. Finiti per puro caso a Rebibbia ad assistere a un recital dantesco da parte di alcuni detenuti, i fratelli Taviani si resero conto che gli attori impegnati in quella performance fuori dai canoni abituali erano reclusi della sezione di alta sicurezza. E cioè l’area del carcere romano in cui sono detenuti quanti hanno commesso crimini puniti con pene a vita o comunque molto lunghe da scontare. Ma scoprirono anche che dietro quell’insolita compagine di attori c’era la passione del regista teatrale Fabio Cavalli che da dieci anni continua a riproporre un’operazione di successo culturale all’interno del perimetro delle mura di Rebibbia: e cioè far sì che chi non ha più molte speranze in un’esistenza possibile “fuori” riesca a incanalare nella recitazione le pulsioni tempestose di un’esistenza negata e insieme l’ansia di esprimere nella finzione della scena la verità di tanta passione repressa “dentro”. Quando Cavalli decise di lanciare un nuovo e ambizioso progetto destinato a durare mesi (cioè mettere in scena lo scespiriano “Giulio Cesare”), i fratelli pisani decisero di tuffarsi in una scommessa di cinema-verità che documentasse tutte le fasi dell’allestimento. Dai drammatici e strazianti provini per scegliere le parti al successo finale di fronte a un pubblico autentico che assiepa il teatro del carcere di Rebibbia.

La sceneggiatura a sei mani nata da questo incontro tra i Taviani e Cavalli è una riscrittura adattata ad hoc del dramma scespiriano con consistenti tagli all’interno del plot e soprattutto un’idea geniale arrivata da Cavalli stesso. E cioè la trovata di attribuire un ulteriore strato di autenticità traducendo le singole battute nei dialetti di ognuno dei detenuti chiamato a interpretare una delle parti della tragedia. Col risultato di avere una doppia e intenzionale sovrapposizione: da una parte i temi che il testo affronta (gli intrighi e le lotte per il potere, i tradimenti, la slealtà, la violenza, il coraggio, il senso dell’onore e via dicendo) e che sono inevitabilmente connessi al vissuto “vero” degli attori. E dall’altra anche il confronto che queste tematiche dolorose e autobiografiche hanno con la più intima nudità di chi le traduce in parole inevitabilmente autentiche proprio perché espresse nella lingua che ciascuno di noi imparata insieme alla vita stessa. A prevalere sono i dialetti del sud Italia perché la maggior parte dei detenuti della sezione di alta sicurezza sono reclusi per reati connessi ad attività del crimine organizzato. Un motivo questo che aggiunge ulteriore densità al progetto, convertendo la babele di dialetti in una dolente colonna sonora così imprevedibilmente omogenea da dare l’impressione di essere stata la lingua originale in cui il dramma era stato scritto.

All’idea linguistica di Cavalli ha fatto poi eco una trovata ugualmente brillante da parte dei Taviani: ovvero girare buona parte del film in bianco e nero, limitando l’uso del colore a quelle parti apparentemente “serene” in cui viene mostrato il risultato finale dell’allestimento, con gli attori che recitano di fronte al pubblico e il trionfo tributato loro a scena aperta una volta conclusa la recita. A dominare le parti più sofferte e intense del documentario è invece un bianco e nero digitale potentissimo e implacabile che indaga sui volti degli attori-carcerati mostrandoli nella nudità delle proprie vite negate a confronto con l’altezza dei versi scespiriani e il loro contenuto inevitabilmente invasivo. Il risultato di questa operazione di assenza di colore come risposta metaforica alla negazione di vita che c’è nella disperata quotidianità dei reclusi è quanto mai potente e va ben aldilà di una facile scelta di superficie. Soprattutto alcuni momenti destinati a rimanere impressi nella mente di qualunque spettatore. Si vedano per esempio i provini iniziali nei quali Cavalli chiede ai potenziali candidati di declinare le proprie generalità fingendo prima di essere nel pieno di una separazione dolorosa e poi in un accesso di furore incontrollato. O ancora i molti momenti nei quali i detenuti-attori sono impegnati a imparare a memoria le parti finendo col confondere il testo scespiriano con la tragedia delle proprie esistenze. Attimi di intensità assoluta che hanno la potenza scarnificante che può avere solo il cinema quando trasforma in verità vissuta la sua eterna promessa di finzione autentica.

Questo rapporto tra verità del vissuto e artificialità del testo teatrale con tutte le sue profonde implicazioni è di certo uno degli aspetti più complessi e ricchi dell’intera operazione. Ciò non ostante, va però detto che il film non è immune dal rischio potenziale che questa lettura in sovrapposizione comporta: i soli momenti in cui la pellicola perde potenza visionaria sono quei rari passaggi nei quali la cinepresa smette di indagare i personaggi e il loro rovello interiore a confronto con i versi scespiriani e si sofferma invece a descriverne in maniera documentaristica l’apatia esistenziale all’interno del carcere a la dolorosa consapevolezza del “fine pena mai”. Sono flebili intermittenze che vedono afflosciarsi la tensione perché la denuncia programmatica che le anima fa sì che in quelle anse di presunto impegno il film si adagi nel solco del cinema a tesi deciso a mettere il dito nella piaga sfondando porte aperte come se fossero corridoi della vergogna mai percorsi prima.

Cesare deve morire” non è certo una novità nel suo genere perché non mancano precedenti di film incentrati sul teatro usato come svago costruttivo all’interno delle strutture di riabilitazione. Basterebbe ricordare “Tutta colpa di Giuda” diretto nel 2008 da Maurizio Zaccaro nel quale il pretesto di allestire un musical sulla passione di Cristo portava gli ospiti di un carcere torinese a intraprendere un percorso catartico di riflessione sul male di vivere. Il documentario dei fratelli Taviani si spinge però molto più in là perché ha il coraggio di usare la più rarefatta e assoluta delle tragedie politiche per raccontare senza sbrodolamenti retorici la condizione umana di chi ha negato in modo torvo il vivere politico (nel senso aristotelico del termine), scoprendo proprio attraverso i versi di un’opera teatrale incentrata su temi “altissimi” il disagio senza futuri possibili di una vita irreparabilmente mutila.

(di Guido Reverdito)

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