Intervista a Sollima su ACAB

acab filmTratto liberamente dal romanzo omonimo di Carlo Bonini, A.C.A.B. è il primo lungometraggio di Stefano Sollima, regista di Romanzo Criminale, la serie televisiva italiana più innovativa dell’ultimo decennio. Figlio d’arte – il padre Sergio ha diretto, tra gli altri, memorabili western “guevaristi” e sceneggiati tv diventati ormai classici – Sollima ha maturato, nel corso del proprio apprendistato televisivo, uno stile nervoso e iperrealistico, una bella inclinazione all’epica e al pathos, grande economia di racconto e una direzione degli attori asciutta e convincente. Doti che tornano a “esplodere” in A.C.A.B, acronimo di All Cops Are Bastards, un pezzo skinhead degli anni settanta, diventato poi un inno delle rivolte di strada. A.C.A.B è un altro film su una banda, l’odiatissimo reparto mobile della polizia, destinato a far discutere fin dalla scelta del punto di vista, tutto interno alle vite pubbliche e private dei tre celerini protagonisti, tre “bastardi” reduci dal G8 di Genova, che cercano di educare una giovane recluta alle regole violente e spregiudicate del clan e alla loro idea distorta di ordine pubblico. Una formazione sul campo che trascorre da alcuni degli episodi di violenza urbana più feroci degli ultimi anni alla routine del lavoro quotidiano: scontri fuori dagli stadi, sgomberi, il caos dei centri di accoglienza, le veglie contro la caccia all’immigrato e i raid ai campi nomadi. A.C.A.B oltre ad essere uno studio antropologico su una tribù ostile e coesa, un racconto di formazione e di amicizia, è soprattutto una disturbante immersione in un paese attraversato da odi e contrapposizioni radicali, spesso sopite o rimosse, da cui sarebbe sciocco stornare lo sguardo.

Il libro di Bonini ha una struttura rapsodica, quasi da reportage. Come lo hai “reinterpretato” per tradurlo in un film?
«Il romanzo di Carlo mi ha colpito immediatamente perché parlava dell’Italia di oggi, scegliendo un punto di vista “sbagliato” e inedito, quello dei celerini. Un mondo a parte, lontano, che viene illustrato mediaticamente soltanto dai telegiornali in modo distante e spersonalizzato.
Il testo ha un taglio documentaristico molto frammentato, con personaggi e storie vere, ma poco adatto alla riduzione cinematografica. Abbiamo fatto ricerche approfondite, incontrato e conosciuto molti celerini, trasformato i personaggi, aggiunto storie nuove, ma ci siamo tenuti la catena degli eventi – l’uccisione di Raciti, l’omicidio della Reggiani a Tor di Quinto, il ferimento per vendetta dei tre albanesi, fino alla morte di Sandri e agli scontri violentissimi che ne sono conseguiti – attraverso cui abbiamo voluto ripercorrere la nostra storia recente. Ci siamo concentrati sugli eventi e soprattutto sull’anima del racconto, per cercare di analizzare e raccontare l’odio di cui questi fatti sono la conseguenza. Non soltanto
quello tra celerini e ultras, che è uno dei refrain narrativi della storia, ma tentando di intercettare le tensioni che lo fanno esplodere un po’ ovunque, in maniera improvvisa e incontrollata, come è accaduto di
recente anche a San Giovanni. Ci interessava l’odio come contagio, come disordine e come stato dell’essere che caratterizza l’Italia contemporanea ».

Nel libro tutto inizia dai fatti Genova, l’evento da cui non c’è ritorno. Che ruolo ha nel film e come lo hai voluto rappresentare?
«È un’eco lontana. Il G8 di Genova non viene mai messo in scena. I tre protagonisti – Cobra, Negro e Mazinga – sono dei reduci che appartengono al settimo nucleo, l’élite del reparto celere, e qualcuno di loro ha delle pendenze giudiziarie proprio per le violenze commesse a Genova.
Gli eventi che il film racconta si concentrano poi nel biennio 2006/2007, i fatti del G8 sono citati in alcune scene e nei dialoghi tra celerini per testimoniare come, anche all’interno del corpo, ci siano a distanza di anni delle posizioni molto diverse su quello che è accaduto. Genova è un groviglio di avvenimenti così complesso che avrei avuto bisogno di una serie televisiva per raccontarlo e non avevo voglia di tenerlo come sfondo o utilizzarlo per un intro a effetto. Per questo ho preferito che rimanesse un’ombra lontana, il passato che ha cambiato per sempre la vita dei protagonisti».

Cos’ha di irrappresentabile quello che è accaduto a Genova?
«Il contesto storico dell’epoca era molto complicato: era il luglio 2001, c’era un nuovo governo che cercava una legittimazione internazionale, una forte tensione sociale, i servizi segreti in fibrillazione… Io rimasi
sconvolto, ero completamente impreparato ai fatti di Genova. C’era una disparità assoluta tra la percezione che avevo del mio paese, evidentemente fasulla, e una deflagrazione dell’odio così violenta ed estrema. Mi sono documentato molto su quanto è accaduto e, anche se ci sono ancora molti processi in corso, non c’è molto da scoprire, la verità è tutta scritta.
Ma Genova, la Diaz, la “macelleria messicana” erano eventi troppo radicali per il mio film, che inevitabilmente mi avrebbero portato fuori tema, avrebbero “bruciato” i personaggi. L’eccezionalità di quanto è successo lo rende poco replicabile e quindi poco significativo da un punto di vista drammaturgico. Era mia intenzione entrare in un mondo ed esplorarlo in modo da renderlo riconoscibile, declinare un microcosmo e dei personaggi in cui ci si potesse identificare».

Hai già messo in conto che il film si tirerà dietro le critiche di tutti coloro
che non amano i film “senza tesi”?

«La storia è raccontata dal punto di vista dei celerini ma il film ovviamente non prende nessuna posizione, si regge sul principio che per ogni azione dei protagonisti ce n’è un’altra uguale e contraria. Questo totale annullamento del “pregiudizio”, dovrebbe consentire allo spettatore di avere lo spazio per formulare la propria lettura delle cose. Non era nostra intenzione né assolvere né condannare, ma mostrare. Abbiamo scelto tre celerini caratterizzati da un diverso grado di stanchezza rispetto al proprio ruolo, che incontrano un giovane e gli insegnano la loro visione del mondo e del lavoro. Partendo da un principio astratto e universale, la difesa della legge, lo educano al conseguimento di un ordine “ideale” da raggiungere attraverso un uso ossessivo e illegale della violenza. La giovane recluta è il nostro strumento, il nostro sguardo per indagare l’universo del reparto mobile. Sulla carta è un film che dovrebbe fare incazzare tutti, ma che racconta fatti autentici su un corpo di polizia che è una specie di terminazione nervosa dello stato. Il loro lavoro li porta a contatto con la parti più disperate della società e sembrano fatti apposta per catalizzare l’odio dell’opinione pubblica. Sono sempre dalla parte sbagliata. Aggiungi poi che i nostri protagonisti sono dei perdenti, un gruppo di “fratelli” che ha perso la bussola e non riesce più a capire la differenza tra bene e male».

A.C.A.B. non è un pamphlet politico, non è del tutto una storia di formazione,
forse, alla fine, è un film poliziesco?

«Un poliziesco classico, certo, alla Training Day: il racconto di formazione di una recluta piena di buone intenzioni che finisce nelle mani sbagliate.
Una storia di fratellanza e di amicizia, come sono spesso le storie poliziesche. Il film di genere ha questo di fantastico, quando è riuscito: attraverso una struttura classica riesce a raccontarti l’oggi, ad avere uno
sguardo acuto e penetrante su quello che ti succede intorno. Sullo sfondo di A.C.A.B. ribollono una serie di fatti che, messi insieme, tracciano un quadro molto inquietante del nostro paese».

(di Roberto Pisoni)

Postato in Interviste, Numero 96.

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