Karlovy Vary KVIFF 2022 – Intervista a Ioseb “Soso” Bliadze

di Massimo Lechi.

Un appartamento in città, due attrici e una macchina da presa: a Ioseb “Soso” Bliadze è bastato davvero poco per dare un degno seguito alla sua apprezzata opera prima, Otar’s Death (2021), e dimostrare ancora una volta al pubblico ceco tutto il suo talento registico.

Girato in piena pandemia, senza denaro ma con abbondanti dosi di passione e brutale, dolorosa onestà, A Room of My Own del giovane filmmaker georgiano ha conquistato al cinquantaseiesimo Karlovy Vary International Film Festival (1-9 luglio 2022) il premio per la miglior interpretazione femminile nel concorso internazionale, andato ex aequo alle bravissime protagoniste Taki Mumladze (anche co-sceneggiatrice) e Mariam Khundadze, e ha riscosso un buon successo di critica.

Al centro di questo dramma intimo e toccante, l’indimenticabile personaggio di Tina, ragazza in fuga dalla famiglia e da un passato di violenza, rimasta sola a Tbilisi in attesa di uno sfuggente fidanzato che ha promesso di iniziare con lei una nuova vita. L’incontro con la volitiva e disinibita Megi, dalla quale prende in affitto una stanza da letto, le farà scoprire il gusto della libertà.

 

A Room of My Own è stato evidentemente realizzato in condizioni del tutto particolari, ed è il frutto di una collaborazione molto stretta tra te e Taki Mumladze. Quando avete iniziato a lavorare al film?

Abbiamo iniziato nel periodo peggiore della pandemia, nel dicembre 2020, quando non c’erano shooting né cinematografici né televisivi e non si faceva nemmeno più teatro. La mia idea, in quel momento, era semplicemente di fare un film, un film che avesse come protagonista una donna. Taki, anche se non aveva mai scritto niente, mi ha proposto di lavorare alla sceneggiatura insieme a lei, e io ho accettato. Prenderla come co-sceneggiatrice è stata la scelta migliore che potessi fare.

La lavorazione, inclusa la fase di scrittura, è stata un processo lungo?

No, perché pur avendo in testa tutta la storia, abbiamo scritto solo la prima parte e l’abbiamo subito girata. Dopodiché l’ho montata e inviata ai miei amici produttori tedeschi, che già mi avevano aiutato con Otar’s Death. Gli è piaciuto molto e, una volta ottenuto il loro sostegno, abbiamo potuto continuare a scrivere e filmare la seconda parte. In tutto ci sono voluti sette mesi, ma i giorni di riprese sono stati solo ventisei.

Il film è un prodotto della pandemia a tutti gli effetti.

Sì, senza la pandemia non sarebbe mai esistito.

Anche il fatto che sia stato girato quasi interamente in un appartamento, con pochissimi attori, immagino sia dovuto alla situazione in cui vi trovavate durante i lockdown.

E l’appartamento in cui abbiamo girato era l’appartamento che Taki e l’altra protagonista, Mariam Khundadze, avevano preso in affitto, era la loro casa. Quando mi hanno invitato per vederla ho pensato che fosse perfetta: era tutto pronto, le attrici erano già lì, bisognava soltanto portare la macchina da presa. Durante le riprese la troupe era composta solo da me, dal direttore della fotografia e dal fonico.

Il set di un cortometraggio amatoriale, praticamente.

Sì, sono state riprese molto poco stressanti. E tutti abbiamo lavorato gratis, perché c’era una grande voglia di sopravvivere. Di sopravvivere artisticamente, intendo.

Zero stress, eppure era un film molto molto intenso, soprattutto per le due protagoniste.

Lavorare con Taki e Mariam è stata una gioia perché erano aperte a ogni tipo di soluzione. Si è improvvisato tanto e in molti casi hanno impiegato una sorta di method acting spinto: se i loro personaggi erano ubriachi, loro si ubriacavano davvero; se dovevano simulare i postumi di una sbornia, restavano sveglie tutta la notte così da essere stanchissime al momento di girare. Volevamo che tutto risultasse il più vero e credibile possibile. Il naturalismo era l’obiettivo.

Da dove vengono i personaggi di Tina e Megi, interpretati rispettivamente da Taki Mumladze e Mariam Khundadze? Vi siete basati su un fatto di cronaca oppure l’origine della storia è in qualche modo autobiografica?

La Georgia è un paese molto conservatore e patriarcale, in cui è difficilissimo essere una donna. Da quando è nata mia figlia, mi chiedo spesso come sarà la sua vita, ed è questo forse il motivo che mi ha spinto a raccontare questa storia. Taki e Mariam, personalmente, non hanno dovuto affrontare gli stessi problemi dei loro personaggi, però molte donne georgiane sì. Per noi è stato facile scriverne, perché sono questioni che conosciamo bene. La colpevolizzazione da parte della società delle vittime di femminicidio e di violenza, come la si vede nel film, è molto comune. Così come è comune il desiderio di fuga del personaggio di Megi. Tantissimi giovani georgiani vogliono lasciare il paese: se glielo chiedi, ti risponderanno che vedono il loro futuro lontano dalla Georgia, in Europa o negli Stati Uniti.

Racconti una generazione di giovani che vogliono fuggire in massa.

Attraverso A Room of My Own, avevamo proprio l’ambizione di far arrivare la loro voce. Infatti sono molto curioso di mostrare il film in Georgia e vedere come questi giovani reagiranno, se si sentiranno coinvolti.

Da regista finora hai sempre toccato argomenti scottanti, sia nella tua opera prima Otar’s Death sia nei tuoi cortometraggi – penso a Tradition, del 2019.

Capita che tu veda dei problemi nel tuo paese e, da artista, senta il bisogno di reagire. Tradition, che è un cortometraggio che non amo particolarmente, l’ho realizzato quando mi sono reso conto di cosa stava succedendo alla comunità LGBT georgiana, come forma di protesta.

Aveva un tono tragicomico che qui manca.

In Otar’s Death un po’ di humor c’era – volevamo che ci fosse. In A Room of My Own, è vero, manca. Ci sono delle scene che penso siano divertenti, ma non so se il pubblico sarà d’accordo… (ride)

Nel complesso il film è abbastanza triste.

Però alla fine mostriamo che una speranza c’è. Che sì, la vita è dura, però vale la pena di impegnarsi per trovare sé stessi ed essere liberi e indipendenti.

Se fossi un critico americano ti chiederei se per te, regista maschio, raccontare la condizione femminile ha rappresentato un problema.

Possiamo parlarne se vuoi, è un argomento interessante!

Ma non voglio porre la questione in termini di giusto o sbagliato…

Sin dall’inizio ho sempre ascoltato molto Taki e Mariam, e nelle scene di sesso ho cercato in tutti i modi di non essere morboso, di non imporre il mio sguardo maschile. Avere la loro fiducia mi ha aiutato.

Definiresti il tuo film una storia – un romanzo – di formazione?

Sì, si può dire che lo sia. All’inizio Tina è molto ingenua, quasi una bambina. È cresciuta in una famiglia profondamente tradizionalista che poi l’ha praticamente consegnata come un pacco a suo marito. Non ha mai studiato, non ha mai avuto un lavoro, non ha mai avuto un minimo di autonomia, e all’improvviso si trova a dover ricominciare da zero. La seguiamo mentre cerca di affrontare i suoi problemi e allo stesso tempo di capire sé stessa, di capire il suo corpo e la sua sessualità.

Tina sembra ingenua in confronto a Megi, che è decisamente più disinvolta, però molto presto ci rendiamo conto di cosa abbia dovuto subire nella vita. È un personaggio, il suo, molto più forte di quel che appare.

Il problema di Tina è che ha sempre fatto affidamento su qualcuno: prima i genitori, poi il marito, poi Megi. Solo quando la sua amica parte lei trova la forza di essere finalmente a suo agio con sé stessa. Tutti noi siamo soli al mondo: è un aspetto molto triste della vita, ma dobbiamo accettarlo.

Il rapporto tra Tina e Megi a un certo punto sembra andare oltre la semplice amicizia: fanno l’amore. Ma non mi sembra che tra loro ci sia desiderio. Tina si attacca a Megi perché ha bisogno di affetto, di sentirsi vicina a un altro essere umano.

Sì, hai perfettamente ragione. Tina e Megi sono due persone che si capiscono e che cercano di sostenersi a vicenda. Il loro rapporto, per quanto intimo, non è basato sull’attrazione omosessuale – anche se per Tina rappresenta comunque un’esperienza diversa, di scoperta.

Parliamo del tuo stile di regia. Ho l’impressione che nei tuoi lavori non ci sia quella ricerca esasperata della bella inquadratura stilizzata che accomuna molti registi georgiani, anche tuoi coetanei.

In Otar’s Death in realtà lo stile lo avevamo cercato parecchio, facendo tanti storyboard e lavorando su inquadrature abbastanza stilizzate. Per raggiungere un certo livello di stilizzazione tutto, dalle luci ai colori, dev’essere perfetto. Devi arrivare sul set sapendo già quello che farai, e questo mi annoia. A me piace improvvisare, lavorare nel qui e ora, cogliere momenti di realtà. In A Room of My Own si trattava di seguire Taki e gli altri attori in campo medio: lo “stile” era quello. Mi sembrava molto più importante lavorare così che imporre un modo di girare più, diciamo, egoista.

L’improvvisazione ha riguardato anche i dialoghi?

Sì, visto che non dovevamo mandare il copione ai fondi per avere finanziamenti, abbiamo scritto una sceneggiatura che era solo per noi, senza dialoghi veri e propri. Qualcosa c’era, è ovvio, ma gli attori erano totalmente liberi di dire e fare quello che volevano. Infatti la prima versione del film era di due ore è mezza, un’ora in più di quello che è adesso: molte cose sono state tagliate.

Hai evitato accuratamente di presentare un film alla Kechiche, sia nella durata che nelle scene di sesso.

No, no… (ride) Io adoro Kechiche. Sono consapevole delle critiche che gli sono state rivolte, però i suoi film mi piacciono molto.

E forse, senza il suo cinema, non ci sarebbe il tuo A Room of My Own

Ah, può essere. Un regista è influenzato da tutto, anche senza che lo voglia. Io dico sempre che la mia più grande fonte di ispirazione è Federico Fellini… Ma Fellini non lo vedi nei miei film.

 

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