Il Cinema Ritrovato 2022 – Walter Hill

di Antonella Pina.

The Driver (Driver, l’imprendibile) del 1978 è stata una delle pellicole presentate nella sezione “Ritrovati e Restaurati”. Ad introdurlo, nella sala del Cinema Arlecchino c’era Walter Hill: il regista, il mito.
The Driver del 1978, restaurato nel corso del 2022 da StudioCanal, è da molto tempo un film di culto. Le incredibili (veramente incredibili per quegli anni) scene d’inseguimento per le strade di Los Angeles hanno fatto scuola, ispirando grandi registi e videogiochi di nuova generazione. The Driver ha cambiato il thriller urbano, eppure quando uscì fu un insuccesso.
Un Ryan O’Neal dal volto imperturbabile è al volante di macchine rubate ed è inseguito da decine di veicoli della polizia agli ordini di un perturbato Bruce Dern detto “Il Detective” il cui unico scopo nella vita è catturare The Driver. In contrasto con le sensazionali scene d’azione c’è l’essenzialità della sceneggiatura, il minimalismo dei dialoghi e della recitazione. Fatta eccezione per Il Detective, nessuno muove un muscolo facciale per esprimere una qualche emozione e nessuno proferisce una parola in più rispetto a quelle necessarie. Siamo dalle parti degli eroi fordiani: “Talk low, talk slow and don’t talk too much” (J.W.).

Walter Hill ha poi incontrato il pubblico all’auditorium – DAMSLab. Rispondendo ad alcune domande di Roy Menarini e Mauro Gervasini, Hill ha raccontato un po’ di sé e del suo cinema.
Ne riportiamo alcune parti

L’amore per il cinema
Ero un ragazzino gracile, avevo l’asma, ero sempre malato, facevo pena e la mia famiglia non mi mandava a scuola, studiavo a casa. Però per distrarmi mi portavano al cinema due volte nei fine settimana e quindi vedevo quattro film, perché per ogni ingresso proiettavano due film. Ho vissuto la magia del cinema: lo schermo era enorme, non riuscivi ad andartene, non andavi neppure al bagno per paura di perdere un’immagine. Oggi è tutto diverso, schiacci un pulsante, sospendi le immagini, le riprendi….è molto comodo ma non è più la stessa cosa. Io ho due figlie e loro hanno vissuto l’esperienza cinematografica in modo molto diverso dal mio, sono state private della magia del cinema.
Io guardavo tutto, mi piaceva tutto: western, commedie, pistole, donne sensuali, musica, azione. Non mi piacevano i film per bambini quelli con la scritta “film per famiglie”, mi piaceva tutto il resto.

Gli inizi. Le sceneggiature.
La mia partenza è stata la sceneggiatura di Getaway, me la commissionò Peter Bogdanovich. Peter mi commissionava delle sceneggiature che probabilmente non leggeva ma comunque qualcuno lo faceva per lui e mi chiamò per il thriller di Jim Thompson. Io portai a termine il lavoro ma Steve McQueen e Peter litigarono e sembrava tutto finito, però nessuno mi disse di andarmene anzi, mi chiesero un parere per il nuovo regista: chi preferivo tra Don Siegel o Sam Peckinpah. Io adoro Peckinpah ma per quel film preferivo Siegel e scelsi Siegel. Certo il mio parere non contava nulla, e infatti scelsero Sam. Comunque fui molto lusingato dal fatto che chiesero il mio parere. In effetti avevo sbagliato, Peckinpah è risultato perfetto. Lui e Steve litigavano spesso. Una volta Steve gli lanciò contro una bottiglia di champagne, Sam si chinò e rimase un buco nel muro. Sam aveva problemi con l’alcool e altri demoni, ma era bravo, prese la mia sceneggiatura e ne fece un film migliore.

Il primo film
Il successo commerciale di Getaway mi aprì le porte alla regia. Per il mio primo film, Hard Times, la produzione voleva cose a basso costo. C’erano dei magazzini nella zona di San Pedro che erano perfetti per un film d’azione. La paga prevista era il minimo sindacale sia per la sceneggiatura che per la regia: è stato il miglior contratto della mia vita. Io non ero ambizioso, volevo solo raccontare le mie storie a modo mio, ma questa è una cosa che puoi fare solo con il tempo, devi guadagnartela.
L’idea per la sceneggiatura la devo a mio nonno. Mi raccontava una storia di imprenditori che cercavano petrolio nel mezzo del nulla, a volte lo trovavano a volte no. Durante le ricerche si formavano accampamenti dove 20 – 25 uomini dormivano nello stesso capannone. Nel fine settimana gli uomini passavano insieme il loro tempo: bevevano, giocavano, si picchiavano e organizzavano scommesse. C’era un uomo che si accordava con il promotore delle scommesse: combatteva e poi si dividevano le vincite. Un giorno questo tizio sparì, aveva guadagnato un po’ di soldi e se ne era andato.

I generi
Impossibile dire quale sia il mio genere preferito, è come scegliere il film preferito. Non è proprio possibile. Mi piace girare in esterno e quindi mi piace fare western: sono belli i paesaggi, i cavalli, i costumi. Nei miei western i personaggi sono storici e quindi ho avuto poco da inventare. La fine di Geronimo è nota, così come quella di Wild Bill Hickok, ma hai comunque un margine per l’invenzione e per la leggenda.
Mi piace anche girare thriller, però in città è tutto più difficile. Bisogna fermare il traffico.
Quando ero giovane, molto tempo fa, qualcuno diceva che i generi erano finiti ma io non ci ho mai creduto. I generi vanno bene, ma sono stati presentati in modo superficiale, con sentimentalismo.

Rapporto con John Milius, sceneggiatore di Geronimo
Lo conosco dal ‘71, non siamo mai stati veramente amici ma ci rispettiamo. Siamo diversi, io sono un borghese, la sera torna a casa, leggo libri. John è un’altra cosa, lo sappiamo, diciamo che ha una personalità forte. A lui piace la caccia e a me no, non ci sono animali a cui vorrei sparare, ad alcuni uomini sì, ma a nessun animale.
Purtroppo ha avuto un ictus e ora ha una ridotta mobilità. Il suo cuore era nella scrittura e non nella regia. Per la regia ci vuole molta pazienza.

Gli attori
Dirigere un film vuol dire fare le cose a modo tuo. Devi sapere ciò che vuoi e devi fare di tutto per ottenerlo. Naturalmente è necessario dare uno spazio all’attore per fargli uscire quello che ha da dare. A me non piace fare più di due ciak e questo infastidisce alcuni attori. Jeff Bridges è un grande uomo, ma con me era frustrato, i miei due ciak non gli bastavano, lui può esprimersi solo al quinto ciak. Gli attori sono tutti diversi. Comunque, in generale, faccio un po’ di prove, lascio che aggiungano qualcosa ma poi c’è il ciak e deve uscire quello che io ho in mente. E’ molto divertente.

La musica
Non mi piace la musica che sottolinea o spinge sul dramma, la musica deve contribuire a creare un’atmosfera. Mi piace lavorare con Ry Cooder, abbiamo lavorato insieme in dieci film. E’ un uomo molto divertente, anche se è molto chiuso, ci vuole tempo per conoscerlo davvero. C’è un po’ di mistero che lo circonda, non riesci a conoscerlo fino in fondo e questo mi piace.
Di solito il processo creativo dura tre settimane: prima Ry ascolta le mie idee, ci lavora sopra e poi aggiunge le sue e crea la bellezza. A volte ho lavorato con grandi musicisti che hanno scritto ottime partiture ma non funzionavano, portavano il film in una direzione sbagliata. E allora chiamavo Ry. Io sono il regista e seguo l’istinto.

I guerrieri della palude silenziosa
E’ stato David Giler a voler fare un film sui Cajun che vivono in Louisiana. Molti dicevano che si trattava di una metafora sulla guerra in Vietnam. Io ho sempre risposto che non faccio metafore, faccio film. Solo un po’ di anni dopo ho confessato che si trattava di una metafora sul Vietnam.

Il prossimo film
Ho girato un western che vedrete nei prossimi mesi, Dead for a Dollar, con Waltz, Rachel Brosnahan, Dafoe… E’ la storia di un tizio che viene assunto per andare in Messico a cercare la moglie di un uomo d’affari rapita da un soldato disertore. Quando entra in Messico scopre che, in realtà, lei è scappata dal marito. Non voglio aggiungere altro. Qualcuno dice che le storie migliori sono quelle dove il pubblico conosce già la fine. Non so. Certo, sappiamo che Clint Eastwood vincerà sempre. La fine è predestinata, è come un ballo a cui partecipa tutto il pubblico, è un contratto con il pubblico. In realtà le cose non sono mai come sembrano, soprattutto in un western dove ci sono dei codici anche per i cattivi.
Io credo che si debbano correre dei rischi. Ho avuto grandi successi e fallimenti, ma non ho mai imparato dai miei errori, ho sempre iniziato un film con lo stesso spirito. Faccio film per me stesso, non credo che li si possa fare perché piacciano ai critici. Metto nel mio lavoro tutto quello che ho, poi devo separarmene e spero che ci sia un pubblico che lo possa apprezzare: quel bambino o quella bambina che è ancora in tutti noi, che salta sul tavolo e si mette a ballare il tip tap.

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