Berlinale 2022 – Intervista a Christos Passalis e Syllas Tzoumerkas

di Massimo Lechi.

Presentato in concorso nella sezione Encounters della settantaduesima Berlinale (10-20 febbraio 2022), The City and the City di Christos Passalis e Syllas Tzoumerkas si è subito imposto sul circuito festivaliero come uno dei titoli europei più spiazzanti dell’anno. Merito della sua complessa natura ibrida, con instabili elementi documentaristici e di cinema di finzione racchiusi in una soverchiante struttura da essay film, ma anche della delicatezza del suo soggetto, del tutto sconosciuto ai più: lo sterminio della comunità ebraica di Salonicco durante l’occupazione nazista della Grecia.

Scritto e diretto a quattro mani dal protagonista di Dogtooth di Yorgos Lanthimos, molto noto anche per il suo lavoro con il Blitz Theatre Group, e dal regista di A Blast e The Miracle of the Sargasso Sea, entrambi nati a Salonicco nel 1978, The City and the City è tante cose: un atto d’accusa, un gesto politico, la rievocazione della pagina forse più oscura del Novecento greco, la storia di una città divisa tra Oriente e Occidente, l’affresco precario di una cultura perduta, il ritratto indignato di un paese che ha scelto di non fare i conti con il proprio passato. Di sicuro un’esplosione di cinema selvaggio e istintivo che riesce a sedurre e al contempo respingere, costringendo lo spettatore a una faticosa riflessione storica.

The City and the City è certamente una piccola grande impresa cinematografica. Cosa vi ha spinto a intraprenderla?

Christos Passalis: Un paio di anni fa eravamo al festival di Salonicco. Era notte e stavamo parlando del nostro comune desiderio di realizzare qualcosa che avesse a che fare con la nostra città natale, Salonicco appunto. Quella della comunità ebraica è stata una delle prime questioni a venir fuori. È un soggetto controverso, un argomento tabù: cinquantamila persone scomparse dall’oggi al domani. Anche quando eravamo più giovani nessuno in città ne parlava, e ci siamo chiesti perché. Questo grande punto interrogativo è stato il punto di partenza.

Syllas Tzoumerkas: Abbiamo deciso di scavare sotto il cemento di Salonicco per vedere come questa storia si relazionasse al presente. All’inizio ci sono state molte difficoltà: come puoi immaginare, è un soggetto che nessuno vuole affrontare, a Salonicco in particolare. Ma Maria Drandaki, la produttrice, e Orestis Andreadakis, il direttore del Thessaloniki Film Festival, entrato nel progetto come curatore, ci hanno aiutato molto e hanno reso possibili i quattordici giorni di riprese.

E avete sempre avuto in testa un film ibrido, che fondesse documentario e finzione?

ST: Quello che avevamo immaginato è quello che si vede sullo schermo. Volevamo fare un film che fosse sospeso al confine tra fiction, documentario e essay film. Lo volevamo diviso in capitoli e caratterizzato, esteticamente, dalla confluenza di stili diversi.

Non sentivate sicuramente il bisogno di confrontarvi con altri registi che hanno affrontato lo stesso soggetto perché, nel cinema greco, degli ebrei di Salonicco non si è praticamente mai occupato nessuno. A quel che mi risulta, in anni recenti solo Ruth Beckermann ne ha parlato nel suo documentario su Kurt Waldheim.

ST: È proprio una questione di inconscio collettivo. Quando si parla di Seconda Guerra Mondiale e di Olocausto, Salonicco non viene mai tirata in ballo. Se parliamo di cinema e di Storia, va detto che il cinema greco ha perso molta della sua tensione, della sua urgenza. Siamo molto bravi ad affrontare temi contemporanei, come dimostra la Weird Wave, ma dopo la morte di Angelopoulos la nostra capacità di confrontarci con il passato è sostanzialmente venuta meno. I fatti storici li usiamo solo per stronzate commerciali che lisciano il pelo al pubblico nazionale. Riportare la Storia nel cinema e usarla non come uno sfondo ma come una vera e propria forza era uno dei nostri obiettivi.

Le ragioni per cui nell’industria cinematografica greca nessuno ha mai voluto raccontare la tragedia degli ebrei della vostra città di che natura sono? Ragioni politiche? Culturali? Di convenienza personale?

CP: Sì, è tutto quanto insieme. Penso possa essere solo la somma di tutte queste ragioni a spingere qualcuno a non parlare di una questione così importante.

ST: Ma c’è dell’altro: un paradosso. Perché la Grecia non è stata un paese filo-nazista. È un paese che ha avuto una grande resistenza, in cui sono morte molte persone. E in molte città greche la comunità ebraica è stata protetta. Salonicco è un discorso a parte.

Per qualcuno che è nato a Salonicco fare un film come The City and the City è un gesto politico molto forte.

CP: Sì, certo.

ST: Non è un tema di cui si discute facilmente…

CP: Da bambino non ne sapevo niente, di questa storia. Non ricordo quanti anni avessi la prima volta che ne ho sentito parlare. Camminando per la città vedevo tutti questi nomi ebraici e letteralmente non riuscivo a capire perché fossero lì. Sono cresciuto in una buona famiglia, tra persone che hanno ricevuto un’educazione, e io stesso ho frequentato l’università, mi considero una persona colta… Nessuno intorno a me ne parlava.

ST: Non c’è mai stata una versione ufficiale di quello che è successo in città. Solo frammenti di una narrazione in base alla quale i greci erano del tutto innocenti e i nazisti erano cattivi. E basta, finito.

Eppure, quando si pensa alle comunità ebraiche europee del passato, Salonicco viene subito in mente.

ST: Sì, ma in maniera pittoresca, se capisci cosa intendo… Salonicco! (con enfasi)

CP: Erano una comunità grande e prospera. Quando sono stati portati via hanno lasciato la città vuota. Un terzo della città svuotato in tre mesi: è un fatto enorme, da non credere. Non che in casi come questo i numeri contino – non misuro le morti in megatoni. Quello che dico è che parte del cuore di Salonicco è stato sradicato in un periodo di tempo molto breve, cosa che rende la vicenda ancora più incredibile.

Come avete preparato la parte storica del film? Che tipo di ricerca avete condotto?

ST: Abbiamo letto molto, a lungo. In questa storia ci sono ovviamente delle pietre miliari, dei momenti decisivi che non potevano essere trascurati. Ma noi cercavamo dettagli, elementi che ci colpissero. Le cose di cui abbiamo scritto separatamente erano quelle più vicine al nostro cuore. Quindi c’è stato un periodo di studio e uno in cui abbiamo ragionato su cosa dovesse far parte del film.

CP: Il senso di questo modo di procedere è capire come ognuno reagisce soggettivamente a fatti oggettivi. Per me si è trattato di un gioco mentale molto serio e allo stesso tempo molto liberatorio.

Guardando il film è impossibile comprendere cosa sia inventato e cosa sia tratto da testimonianze e documenti. Penso al lungo monologo sulle violenze nel ghetto, girato come una confessione, con la macchina da presa che si avvicina lentamente alla ragazza. Uno si chiede: lo hanno scritto o lo hanno trovato in qualche libro di memorie?

ST: È un esempio di come i fatti reali siano stati distillati in momenti di cinema. Prima parlavi di riferimenti cinematografici. Ecco, questa è una tecnica che era già stata usata da Angelopoulos ne La recita. L’abbiamo fatta nostra.

Il film è diviso in sei capitoli, che di fatto sono sei linee narrative. È tutto quello che avete girato o avete dovuto sacrificare delle storie al montaggio?

CP: In fase di scrittura abbiamo eliminato delle scene, degli episodi, delle piccole storie che pensavamo avrebbero potuto indebolire l’insieme.

Indebolirlo o appesantirlo?

ST: Indebolirlo. Sai, si guarda all’economia del racconto e alla fine si decide di usare solo quello che è di importanza vitale. Non avendo un certo tipo di finanziamenti, The City and the City è stato scritto in uno stile più vicino al trattamento che alla sceneggiatura canonica. Questo ci ha consentito di essere molto liberi durante le riprese. Ne è venuto fuori del materiale aggiuntivo che abbiamo utilizzato per un’installazione su tre schermi ad Atene e anche, in maniera inaspettata, nel film stesso.

E sulla struttura come avete lavorato? Data la differenza di stile e di ritmo tra i vari capitoli, immagino che trovare l’equilibrio giusto sia stata forse la cosa più difficile, soprattutto al montaggio.

CP: È interessante il fatto che abbiamo girato in due periodi distinti: una settimana a Salonicco e poi una settimana ad Atene e dintorni. Questo ci ha aiutato perché, pur avendo una prima idea di quale direzione avremmo dovuto prendere, abbiamo potuto sviluppare il film mentre lo giravamo. Abbiamo lavorato in maniera piuttosto istintiva, senza seguire determinate regole e determinati percorsi. Per me è stato liberatorio. Il fatto stesso che fosse un progetto co-diretto e co-sceneggiato con Syllas mi dava la sensazione di lavorare a una cosa tutta nostra, realizzata insieme, tra noi. Se fossi stato da solo a scrivere e dirigere, avrei sicuramente affrontato più ostacoli, in maniera consapevole o inconsapevole.

ST: Per me è stato esattamente lo stesso.

E la cornice “saggistica” con i materiali fotografici ha preso forma alla fine o era già nello script?

ST: Nell’arco della lavorazione quelle sono state le parti più stabili, anche se la selezione dei fatti e dei materiali ha richiesto molto tempo.

CP: Alcuni materiali sono cambiati nel montaggio, sono stati sostituiti, ma l’idea di considerarli una parte organica del film l’abbiamo sempre avuta. Sono soluzioni estetiche che ci hanno permesso di mostrare e spiegare il contesto dei singoli episodi. Non è mai stata nostra intenzione condensare in un’unica vicenda tutti gli eventi storici.

Anche perché dovevate tenere insieme Storia e Poesia. Sono i due poli tra cui oscilla il vostro film.

ST: Abbiamo cercato di capire dove fosse la scintilla da cui far nascere l’elettricità tra questi poli di cui parli.

Christos, questa è stata la tua prima co-regia al cinema, dopo tante messinscene curate a teatro. E un fatto curioso è che hai realizzato il tuo primo film da regista in solitaria, Silence 6-9, proprio mentre stavi lavorando insieme a Syllas. Possiamo dire che The City and the City sia stato per te, passami l’espressione un po’ stupida, un’esperienza formativa?

CP: No no, non è affatto stupida, è la verità. È stato come attraversare a piedi un continente inesplorato. In tutta sincerità non ho ancora un’opinione su questi ultimi due anni, su questa doppia esperienza!

Quindi non posso chiederti se le due lavorazioni si sono intrecciate, se hai portato qualcosa di un film sul set dell’altro…

CP: Sono sicuro di sì. Ultimamente ho lavorato a diversi progetti in contemporanea e ho visto come parte di una cosa finisca in un’altra e viceversa. Però alla fine sono sempre lo stesso cervello e lo stesso cuore e lo stesso insieme di sentimenti, quindi non posso dividere le diverse esperienze in maniera logica. È impossibile.

Su questo film hai lavorato insieme a un regista dallo stile molto particolare come Syllas, un tuo amico di vecchia data che ti ha inoltre diretto in più occasioni. Com’è stato il rapporto tra voi dietro la macchina da presa?

CP: Facile.

ST: Sì, molto facile. Come hai detto tu, lavoriamo insieme da molti anni e, cosa molto rara e preziosa, siamo in grado di lasciare spazio alle nostre diverse sensibilità. Abbiamo creato uno spazio comune tra noi e lo abbiamo difeso. Nel film il dialogo non è solo tra passato e presente, tra città e Storia, tra diversi generi cinematografici, ma è anche tra noi due, tra me e Christos. Ma credo che la persona che può rispondere meglio alla tua domanda sia Yorgos Zafeiris, il nostro montatore. (ride)

CP: Parliamo spesso di forza e forze a proposito di questo lavoro, in senso letterale. C’è la forza della Storia, la forza della città nel presente, la forza di Syllas e la mia: forze differenti che cercano di sopravvivere in un’inquadratura.

Questa tua riflessione mi riporta all’aspetto cinematograficamente forse più interessante di The City and the City. Il lavoro che avete fatto sul tempo e lo spazio racchiude infatti, secondo me, anche il senso politico del film. Perché quello che vediamo sullo schermo è una specie di infinito presente, che fonde insieme vari momenti della Storia, e dal quale emerge un’inquietante persistenza dell’antisemitismo.

CP: L’idea di filmare dei nazisti nella Piazza della Libertà di oggi penso offra una certa prospettiva estetica, politica e filosofica. Tempo e spazio sono sempre astratti nel film, anche se sono molto reali. Sono sempre sfuggenti, e non devono mai essere dati per scontati.

ST: Volevamo che il film avesse la natura fluida della memoria. La memoria è fluida, e lo è anche quella storica, che si riflette sempre sul presente.

Da questo punto di vista credete che The City and the City farà incazzare qualcuno?

ST: Penso di sì. Tante persone si incazzeranno. Ma va bene così, fa parte del dialogo. Io sono molto fiero di questo film.

 

 

 

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