“Il paradiso probabilmente” di Elia Suleiman

di Aldo Viganò.
Pancia prominente e cappello floscio sopra l’immancabile pastrano, il protagonista Elia Suleiman osserva il mondo che scorre. Non per caso è un regista (o aspirante tale, almeno come personaggio), con il permanente sorriso sulle labbra silenziose e con gli occhiali sul naso.
Nella natia Nazareth, come poi anche a Parigi e a New York, egli guarda il paesaggio e soprattutto la gente. Il vicino di casa che gli pota l’albero di limoni e i tassisti che (dopo una lunga serie di inquadrature statiche) lo conducono con lunghi carrelli in avanti all’aeroporto per la capitale francese o nella metropoli statunitense dove il conducente si meraviglia di aver fatto finalmente la conoscenza di un palestinese. Ma anche i bar di Parigi o i grattacieli di New York, dove le belle parigine passeggiano davanti al bistro al cui tavolino egli siede silenzioso o dove i nullafacenti della Grande Mela si contendono un posto accanto alla fontana di Central Park.
E, quando infine, egli farà ritorno in patria – sempre con lo stesso sorriso e gli occhiali dalla nera montatura (cambia solo il colore del cappello) – non può che indugiare in una discoteca dove tanti giovani ballano a ritmo sfrenato.
Suleiman è uno spettatore. O solo un regista in cerca di ispirazione.
Come Jacques Tati o Buster Keaton, anche lui non parla mai. Suliman rimane sempre solo un astante; testimone silenzioso di un mondo che di fatto non lo prende mai neppure in considerazione, come del resto fanno i produttori francesi o statunitensi dai quali si reca senza speranza alcuna per presentare il suo progetto di un film. Ma ciò nonostante, il suo sguardo come i suoi silenzi non nascondono l’ambizione di aprirsi ad un giudizio politico e sociale sulla condizione contemporanea dei palestinesi. Tanto più se nati a Nazareth come lui e da famiglia cristiana di religione greco-ortodossa.
Nato nel 1960, Suleiman è un regista dai modi gentili e un intellettuale che non ama affatto ostentare il proprio pur evidente credo politico. Tanto meno vuole affermarlo a tutti i costi con violenza. Egli è di fatto un uomo simpatico, ma è anche un regista un po’ noioso a causa della propria tendenza a privilegiare l’idea rispetto l’azione, lo sguardo passivo nei confronti del dinamico divenire della realtà, mentre lo statico fascino delle immagini fisse non cessa mai di fare aggio sulla narrazione.
Il cinema di Suleiman è come il suo personaggio. Si limita a guardare gli altri, pensando forse che non tocchi a lui (forse anche che sia oggettivamente impossibile farlo) cambiarli in meglio o in peggio. Gli altri sono come sono. Lo fanno sorridere, ma lui non intende mai partecipare a quello che fanno. Forse non crede più che ne valga la pena. O forse proprio attraverso la sua immobilità e i suoi silenzi passa anche la via più comoda per iniziare ad essere presi finalmente in considerazione proprio dagli altri: come del resto sembrano dimostrare i quasi unanimi riconoscimenti della critica cinematografica (soprattutto italiana) e i numerosi premi ottenuti da questo film nei festival internazionali.

IL PARADISO PROBABILMENTE
(“It Must Be Heaven”, Francia e Canada 2019) regia e sceneggiatura: Elia Suleiman – fotografia: Sofian El Fani – montaggio: Véronique Lange. personaggi e interpreti: Elia Suleiman (se stesso), Ali Suliman (uomo pazzo), François Girard (poliziotto), Gael Garcia Bernal (se stesso), Nancy Grant (produttrice), Guy Sprung (professore), Kwasi Songui (tassista), Stephen McHattie (chiromante). distribuzione: Academy Two – durata: un’ora e 37 minuti

Postato in Recensioni di Aldo Viganò.

I commenti sono chiusi.