“Downton Abbey” di Michael Engler

di Aldo Viganò.

La crisi del cinema di questi  primi decenni del terzo millennio passa anche attraverso l’uso invalso di sostituire la visione dei film con quella delle “serie”, che soprattutto i giovani tendono a seguire sui loro smartphone: cioè negando a priori alcune delle caratteristiche proprie del cinema quali lo schermo grande, la sala buia e la fruizione collettiva dello spettacolo. Cosa che fa passare in secondo piano la funzione narrativa delle immagini e che, non a caso, è stata recentemente stigmatizzata anche da Roman Polanski, che ha rifiutato di concedere un’intervista a chi gli si presentò dicendo di aver visto il suo ultimo film attraverso un link: «Mi ci sono voluti sette anni per farlo e lei lo guarda sul telefonino?».

Il discorso potrebbe essere allargato sino ad affrontare anche l’abuso del digitale e il mancato rispetto dei formati originali; ma questo è appunto un altro discorso. Il fatto è comunque che così facendo si contribuisce a deteriorare il gusto del pubblico, che in questo caso viene indotto a scambiare per un vero film anche questo Downton Abbey, recepito più propriamente come il sequel cinematografico delle 52 puntate della “serie” tv ambientata nello stesso castello e interpretato dagli stessi attori nel corso di sei anni.

Nonostante l’abuso dei piani sequenza e delle riprese aeree, il fatto è che il film firmato da  Michael Engler (regista che si è sempre barcamenato tra teatro, televisione e cinema) riesce a restituire sul grande schermo solo il vuoto estetico delle sue immagini: utilizzate ora solamente come illustrazione della parola, ora come orpello calligrafico della loro banalità visiva.

Proseguendo nella sua rivisitazione della storia del Novecento (dalla tragedia del Titanic alla fine del 1925) attraverso il punto di vista del microcosmo rappresentato dal maniero dello Yorkshire dove la famiglia Grantham coabita (naturalmente su piani diversi) con i propri domestici, Dowton Abbey (il film) si concentra sulla visita che il re Giorgio V (nonno dell’attuale regina briitannica Elisabetta), accompagnato dalla moglie e da un seguito di servitori, decide verso la fine degli anni Venti di fare ai nobili Grantham. L’evento – che comprende un pasto alla tavola degli ospiti, una parata militare nel paese vicino e un ballo per i nobili locali – getta ovviamente nello scompiglio sia i padroni di casa, sia i loro servitori. Ma, mentre al piano nobile si consuma (tra battute sarcastiche e aristocratiche ripicche) il gioco tipicamente inglese della finta cortesia, è nei piani sottostanti (la cucina) e sovrastanti (le camere dei domestici) che la battaglia si fa più aspra con la servitù locale coalizzata a neutralizzare la spocchiosa invadenza del seguito regale.

Quello che accade è ovviamente a lieto fine per lo spettatore, indotto per tutta la durata del film ad ammirare il bell’arredamento scenografico, il lusso delle portate nelle stoviglie d’argento, l’eleganza delle divise e degli abiti da sera, come a parteggiare per la pur effimera vittoria professionale di maggiordomi, cuoche, camerieri, sguatteri del posto. In fin dei conti, il film è tutto qui: arricchito come al solito dalla professionale recitazione di tutti gli attori anglosassoni (con Maggie Smith ed Elizabeth McGovern, in prima fila) e con la concessione di qualche piccola trasgressione quale la relazione omosessuale tra due componenti di fazioni avverse o la rivelazione che una delle domestiche è in realtà la figlia di una nobildonna.

Tutto qui, appunto. Molto “english” e molto per bene.

Qualcosa che ricorda (pur con esito minori) le atmosfere di Gosford Park (non a caso sceneggiato dallo stesso creatore della “serie” di Downton Abbey), ma infinitamente lontano da un film quale La regola del gioco (La règle du jeu, 1939), cui pur per trama il racconto somiglia.

Se il film firmato da Jean Renoir era un capolavoro, Dowton Abbey è però solo un film che si dimentica facilmente.

Sulla base dello stesso spunto narrativo – lo scombussolamento provocato nei diversi piani di un castello dalla visita di un personaggio importante (oggi quella della famiglia reale, ieri più prosaicamente quella di un aviatore reduce da un’attraversata record dell’Atlantico) –  i due film evidenziano la differenza abissale tra il cinema e il suo surrogato. Mentre La regola del gioco trae da un simile spunto narrativo un “dramma giocoso” (la definizione è dello stesso Renoir) che mescola idee generali e situazioni particolari, sapendo parlare per immagini di conflitti sociali e di rivalità amorose che riguardano l’umanità tutta, a qualunque tempo appartenga; lo sceneggiato dell’anonimo Michael Engler riesce a ricavare da una situazione simile solo un banale ritratto di un mondo lontano, illustrato nelle sue apparenze esteriori, ma assolutamente privo della capacità di essere uno specchio di quello che siamo, o almeno vorremmo o non vorremmo essere.

È questa la differenza tra una prospettiva artistica e la banalità dell’illustrazione. Tra una messa in scena che costruisce la realtà e quella che si limita a visualizzare ciò che è già dato a priori. Tra lo sguardo che definisce i personaggi di cui viene raccontata la storia e quello che si limita a registrarne lo svolgimento nella sua banalità quotidiana.

In poche parole, se non si può certo chiedere a Downton Abby di avere le stesse qualità di La regola del gioco, si potrebbe almeno pretendere che lo spettatore fosse in grado di capirne la differenza estetica. Così come di comprendere il divario ontologico che esiste tra le immagini concepite per vivere su un grande schermo  e quelle destinate a essere viste sul display di un cellulare o sul monitor televisivo.

 

 

DOWNTON ABBEY

(“Downston Abbey”, GB 2019)  regia:Michael Engler – soggetto: dalla serie tv creata da Julian Fellowes – sceneggiatura: Julian Fellowes – fotografia: Ben Smithard – musica: John Lunn – scenografia: Donal Woods – costumi: Anna Mary Scott Robbins – montaggio: Mark Day.  interpreti e personaggi: Hugh Bonneville (Robert Crawley, conte di Grantham), Laura Carmichael (Edith Pelham, marchesa di Hexam), Jim Carter (signor Charles Carson), Raquel Cassidy (Phyllis Baxter), Brendan Coyle (signor John Bates), Michelle Dockery (Lady Mary Talbot), Kevin Doyle ( signor Joseph Molesley), Michael C. Fox (Andy Parker), Joanne Froggatt (signora Anna Bates), Matthew Goode (Henry Talbot), Harry Hadden-Paton (Herbert Pelham, marchese di Hexam), Robert James-Collier (signor Thomas Barrow), Allen Leech (signor Tom Branson), Phyllis Logan (signora Elsie Hugues), Elizabeth McGovern (Cora Crawley, contessa di Grantham), Sophie McShera  (signora Daisy Mason), Lesley Nicol (signora Beryl Patmore), Maggie Smith (Violet Crawley,contessa madre di Grantham), Geraldine James (Maria di Teck, la regina), Simon Jones, re Giorgio V), Tuppence Middleton (Lucy Smith). Distribuzione: Universal Pictures – durata: due ore e 2 minuti

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