Far East Film Festival 2019 – “The Body Confession” (1964) di Jo Keung-ha

di Renato Venturelli.

Il primo film del 21° FEFF è questo bel melò anni sessanta, proiettato prima ancora dell’inaugurazione ufficiale del festival per la retrospettiva del cinema coreano, organizzata quest’anno in occasione del suo centenario. Presente in sala, la figlia del regista Jo Keung-ha (1919-82), che ha ricordato come il film fosse tra i prediletti del padre.

Lo spunto, in realtà, appartiene alla più convenzionale tradizione del melodramma, con una madre che per sopravvivere ha finito per dedicarsi alla prostituzione e al mercato nero, mantenendo però le sue tre figlie all’università di Seul per garantire loro un futuro brillante. Le ragazze credono che gli agi familiari derivino da un negozio di tessuti, mentre la madre è famosa a Busan come “la Presidentessa”, gestisce un bordello, è amata dalle sue ragazze, ma intanto deve ancora prostituirsi, benché già in là con gli anni e claudicante per un vecchio infortunio sul lavoro.

I problemi deriveranno dal fatto che la donna cerca di trasmettere alle tre figlie la sua ossessione per il denaro e per l’affermazione sociale, ma una sola tra loro sembra intenzionata a seguirla, mentre un’altra vorrebbe assecondare la propria vocazione musicale e la terza confessa di essere addirittura inamorata di un camionista, scatenando la reazione furibonda della madre. L’unica figlia a darle soddisfazioni sarà tuttavia quella che fa precipitare la situazione, in quanto verrà ingannata da un ricco rampollo e finirà a sua volta per prostituirsi in un locale di Busan.

Lo schema del melodramma non è però la semplice ripetizione di una formula utilizzata a tutte le latitudini (madre prostituta mantiene agli studi le figlie, tacendo sulla propria condizione) ma diventa lo specchio della Corea del Sud anni sessanta, della sua ossessione per il denaro negli anni della ripresa economica e di un’occidentalizzazione destinata a stravolgerne le basi morali e culturali. Anche le musiche del film sono quasi tutte occidentali – per due volte si ascolta pure Funiculì funiculà -, a conferma di una cultura sempre più occidentalizzata. E il film distribuisce segnali politici ben precisi, in alcuni casi anche audaci: dalla presenza costante della MP Americana, a una scena cruciale ambientata durante una manifestazione studentesca anti-governativa, dove le forze dell’ordine aprono il fuoco e feriscono il compagno di una delle figlie.

Il film non diventa però mai dimostrativo in questo suo assunto politico e sociale, preferendo sempre passare attraverso il filtro del melò e del corpo. “Ho venduto anima e corpo per una figlia inutile!” urla la madre zoppicante davanti alla figlia che preferisce l’amore all’affermazione sociale. E la zoppia è una condizione simbolica che attraversa l’intero film: prima la madre, segnata nel corpo dalla sua vita di sofferenza, lavoro e prostituzione; poi la figlia prediletta che rimane momentaneamente azzoppata da un giocatore di baseball, a simboleggiare la sua imminente “caduta”; infine, il marito dell’ultima figlia, che resta appunto ferito alla gamba durante la manifestazione studentesca. Un film popolare con una sua forza nel personaggio centrale della madre che ha scelto lucidamente il Male, ma al tempo stesso un film che rispecchia questioni esemplari della Corea “americanizzata” degli anni sessanta.

 

 

Postato in Festival.

I commenti sono chiusi.