Un padre e una figlia – Intervista a Federico Bondi

di Massimo Lechi.

Ci sono voluti oltre dieci anni a Federico Bondi per realizzare il suo secondo lungometraggio di finzione. Dieci anni durante i quali il regista fiorentino è tornato a dedicarsi felicemente al documentario (Educazione affettiva, del 2013, co-diretto da Clemente Bicocchi), proseguendo la propria ricerca cinematografica lontano dai riflettori.

E alla fine Dafne, prodotto dalla Vivo film di Marta Donzelli e Gregorio Paonessa insieme a Rai Cinema, non ha deluso chi in Mar Nero (2008) aveva intravisto il talento di questo narratore gentile capace, attraverso l’introspezione psicologica e uno stile di regia essenziale, di raccontare con rigore e delicatezza  la complessità dei rapporti umani.

Presentato nella sovraffollata sezione Panorama della sessantanovesima Berlinale, dove agli applausi convinti del pubblico si è aggiunto in coda un ben poco scontato Premio FIPRESCI, il film deve il titolo all’indimenticabile protagonista, un’energica trentenne con la sindrome di Down (l’esordiente Carolina Raspanti, strepitosa) che vede rompersi il proprio equilibrio familiare quando la madre (Stefania Casini) muore improvvisamente e l’anziano padre Luigi (un toccante Antonio Piovanelli) cade in depressione.

Costretti dal caso a fare i conti con un lutto inaspettato e con la necessità di scacciare il dolore, Dafne e Luigi decidono di  mettersi in cammino verso la casa natale della scomparsa. Sarà la figlia, con grande caparbietà, a restituire al padre la voglia di guardare al futuro.

 

Ho letto che Dafne è nato da un’immagine.

Sì, è vero. Diversi anni fa, mentre ero in coda in macchina, vidi a una fermata dell’autobus un padre anziano e una figlia con la sindrome di Down che si tenevano per mano. Erano fermi, in piedi, davanti a questo via vai di automobili… Mi sembrarono una specie di eroi, quasi due sopravvissuti.  Questa è stata la scintilla.

 

E’ una scena piuttosto comune, a cui tutti abbiamo assistito almeno una volta. Costringe sempre a chiedersi chi dei due sorregga l’altro.

Probabilmente nessuno dei due. O forse è quell’unione a sorreggerli entrambi… Fatto sta che da lì sono entrato in un mondo che non conoscevo. Ho frequentato l’associazione Trisomia 21 di Firenze, attiva sul mio territorio, ho conosciuto tanti Down più o meno giovani e così ho iniziato a scrivere il soggetto.

 

Di che periodo stiamo parlando?

Circa tre anni e mezzo fa, prima che conoscessi Carolina.

 

Immagino che la ricerca della protagonista sia stata la cosa più difficile – nella prima fase, almeno.

Carolina però non l’ho conosciuta in pre-produzione. Lei è stata determinante in fase di scrittura della sceneggiatura, quando già il soggetto era diventato trattamento.

 

Carolina Raspanti è un personaggio tutt’altro che banale anche nella vita: oltre a scrivere, so che viaggia ed è molto attiva. Come vi siete incontrati?

Grazie al web. Partecipando poi alla presentazione del suo primo libro, mi colpì tantissimo la sua proprietà di linguaggio: ogni parola era pesata, giusta. E naturalmente mi colpì anche il suo tono un po’ saccente, da maestrina. Tutte cose che non avevo trovato in altri ragazzi con la sindrome di Down – tanti hanno anzi gravi difficoltà linguistiche. Non ho mai avuto dubbi su Carolina. Il personaggio di Dafne è stato creato girando intorno a lei, rubando espressioni, toni, modi di dire e di fare. Dafne e Carolina coincidono.

 

Come ha reagito quando le hai fatto leggere la sceneggiatura?

Non gliel’ho mai fatta leggere. E non l’ho fatto perché sarebbe stato imbarazzante e perché, sul set, lei sarebbe stata tutto fuorché spontanea. Avrebbe imparato a memoria le sue battute e così avreste sentito l’intenzione. Per cui è stato tutto maledettamente complicato…

 

Quindi le davi la scena volta per volta?

Sì, ma non gliela davo scritta: gliela raccontavo. Raccontavo quella che era la posta in gioco e poi le davo le battute. Quello era l’unico modo per tornare alla Carolina che aveva dato l’input alla sceneggiatura.

 

Però lei è stata straordinariamente recettiva…

Come no! Questa è stata la sua forza. Io dovevo solo creare le condizioni per farla reagire. Sempre però senza che lei sapesse dov’era all’interno della storia. Lei sapeva solo che le moriva la mamma e che avrebbe aiutato il padre.

 

Hai girato le varie parti del film in ordine cronologico, seguendo la sceneggiatura?

Diciamo che girare Dafne non è stata una passeggiata, anche se tutto con una passeggiata è cominciato. Ho iniziato con il cammino, in inverno. E’ stato un modo per entrare nella storia in punta di piedi: camminando, i due avrebbero parlato e si sarebbero conosciuti. Ci tenevo tanto, anche se sapevo che da un punto di vista produttivo non sarebbe stato semplice. Una volta ripreso a girare in estate, dopo una lunga pausa, ho cercato di mantenere l’ordine cronologico. L’ultima scena invece l’ho girata quand’erano molto più rodati.

 

Hai sfruttato le contraddizioni del cinema per costruire il tuo film e lavorare sugli attori.

Bravo, è esattamente questo. Ho iniziato dalle scene in esterni del cammino non solo per far sì che Carolina e Antonio si conoscessero, ma anche per far sì che lei si sentisse a proprio agio davanti alla macchina-cinema. Piano piano ha preso dimestichezza e ha instaurato rapporti con me e con la nostra troupe, che era veramente ridotta all’osso.

 

Un bel salto rispetto a Mar Nero, in cui la protagonista era un’attrice esperta come Ilaria Occhini.

Un altro mondo, chiaramente. Ilaria arrivava sulla scena dopo aver fatto un lavoro enorme sul testo… Cosa che invece, per Dafne, ha fatto Antonio Piovanelli.

 

In un certo senso, Piovanelli è stato una spalla sia per te che per Carolina.

Lui imparava a memoria anche le battute di lei. Battute che, molto spesso, arrivavano in ritardo o modificate – perché comunque volevo che si giocasse anche sull’improvvisazione. A mettersi in gioco a settantotto anni dopo una vita di teatro, insomma, ci vuole coraggio.

 

La sua prova mi è parsa straordinaria, di una generosità rara. Lui è un attore molto particolare, con appunto tanto teatro alle spalle, ma poco cinema – e principalmente con Bellocchio. Come l’hai scelto?

Mi sono innamorato del viso e della voce: appena l’ho visto e sentito ho capito che era lui l’interprete che cercavo. Poi volevo un volto proprio come il suo, meno riconoscibile, perché mi serviva che con Carolina si instaurasse un rapporto alla pari. Pensa a cosa sarebbe stato il film con…

 

Con Toni Servillo.

Ecco, con Servillo. Che cosa sarebbe stato? Non saprei dirlo…

 

Mi ha molto stupito il fatto che, complice forse l’esuberante presenza di Carolina, tutti i critici abbiano individuato senza esitazioni nella sola Dafne il cuore del film. La centralità che tu dai anche alla figura del padre e alla sua lenta e progressiva presa di coscienza è passata invece quasi in secondo piano.

Io sposo la prospettiva di Dafne, ma in realtà il protagonista è Luigi. Da qui la scelta di chiudere il film su di lui, perché è quello del padre il personaggio che si trasforma nel corso della storia.

 

Il viaggio dei due personaggi, tanto quanto ti è servito nella realtà a sbloccare Carolina, ti ha permesso di assecondare la trasformazione di Luigi.

Eppure, nei primi soggetti, io non avevo il cammino… Quello è venuto dopo. Ma perché? Perché volevo che Dafne e Luigi stessero insieme. Avevo bisogno che crescessero contemporaneamente.

 

Ed è stata una scelta rischiosa. Avrebbe potuto portare il film in territorio Rain Man e risultare scontata.

E irritante.

 

Nel finale suggerisci la creazione di un nuovo equilibrio tra padre e figlia, un’armonia diversa.

Quando scrivevo li vedevo arrivare nella casa natale della madre e aprire le finestre. Mi piaceva l’idea che Dafne prendesse quasi le redini della casa da sua madre.

 

Anche in Mar Nero i personaggi dovevano fare i conti con una realtà spiacevole e con la difficoltà a iniziare una nuova vita.

Evidentemente si fa sempre lo stesso film… (ride) Ci sono veramente tanti punti in comune – persino troppi. Forse Mar Nero non mi è bastato per chiudere un discorso che per me è importante, che mi preme affrontare.

 

Perché ti preme affrontarlo così tanto?

Mi interessano i rapporti. Mi interessa approfondire il rapporto che mi lega all’altro, perché secondo me è lì che sta la salvezza. E viviamo in un mondo dove è sempre più difficile instaurare rapporti autentici. Siamo sempre più isolati, sempre più soli e tristi. E io invece sento il bisogno di uscire: quando esco sto bene, quando vedo un amico sto bene. Perdona la banalità del discorso, ma è così.

 

Be’, ma è anche il modo in cui lavori sui rapporti umani e cerchi l’intimità, per di più ricorrendo a una messinscena realistica senza alcun tipo di artificio di stile, a esporti al rischio della banalità…

Ogni volta, posto di fronte al bivio, cerco la forma più semplice e diretta possibile. E questo mi aiuta molto.

 

Ed è paradossale, perché evidentemente scegli di ricercare una semplicità che è difficilissima da ottenere sullo schermo.

E’ la cosa più complicata, lo so. Ogni volta provo a concentrarmi sull’essenza drammatica della scena, sull’intensità dell’azione, quindi tutto il resto per me passa in secondo piano. Sono gli attori che fanno la differenza, e non il movimento di macchina impeccabile.

 

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