Festival du court métrage de Clermont-Ferrand 2019 – Corti d’autore

di Massimo Lechi.

Il livello della trentunesima competizione internazionale del Festival du Court Métrage de Clermont-Ferrand (1-9 febbraio 2019) – evento giunto invece ormai alla quarantunesima edizione – è stato decisamente alto, con gustose anteprime mondiali a contendersi l’attenzione del pubblico con i cortometraggi più apprezzati della stagione. A Clermont-Ferrand, del resto, qualità e quantità sono inscindibili. Metà mercato per addetti ai lavori e metà rassegna per cinefili e giornalisti, la Mecca francese del cortometraggio è un festival ipertrofico, sovraffollato e inevitabilmente dispersivo, in cui le generose sezioni (da Labo ai focus speciali, passando per i tributi) sono da sempre in grado di offrire una panoramica completa sullo stato di salute del settore.

Spazio perciò, in questo 2019, agli incensati Fauve del canadese Jérémy Comte e a Skin dell’israeliano Guy Nattiv – entrambi candidati all’Oscar. Ma anche all’italiano Yousef di Mohamed Hossameldin (finito nella cinquina dei David di Donatello), al documentario sperimentale Sadder Than Playtime On A Rainy Day, in cui il brasiliano Lobo Mauro ripercorre con un complesso montaggio visivo e sonoro la storia del Brasile tra la ristrutturazione dello stadio Maracana e la contestatissima riforma del lavoro del 2017, e alla splendida docu-fiction D’un Château l’Autre di Emmanuel Marre, sarcastica e acutissima riflessione sullo smarrimento esistenziale e politico della gioventù francese. Un’abbondanza intimidente, insomma, che scoraggerebbe ogni tentativo di sintesi o di bilancio critico.

Di seguito, tuttavia, una piccola selezione dei migliori corti  visti nelle sale della Maison de la Culture. Quattro lavori di spessore che, attraverso scelte estetiche e narrative diversissime, confermano le potenzialità espressive di una forma cinematografica divenuta ormai strumento ideale per l’esplorazione dei conflitti e delle contraddizioni del presente.

 

Brotherhood (Fraternité) di Meryam Joobeur

Quella del povero pastore tunisino Mohamed (Mohamed Graiaa) è un’esistenza a dir poco difficile. Ha una moglie, due figli ancora troppo giovani per aiutarlo con il bestiame e un dolore profondissimo con il quale convivere ogni istante: quello generato dall’arruolamento nell’Isis – e dalla conseguente scomparsa – del terzo figlio, Malik, il maggiore. Quando quest’ultimo torna inaspettatamente a casa con una sposa siriana velata, le tensioni a lungo sopite crescono fino a scoppiare in un finale amaro e beffardo.

Applaudito e premiato in ogni angolo del mondo (riconoscimenti ai festival di Toronto, Montréal, Cairo e Carthage, tra i tanti), Brotherhood della tunisino-americana Meryam Joobeur è stato senza dubbio uno dei cortometraggi rivelazione dell’ultimo biennio.  Tutto, in questo compatto dramma politico-familiare girato in una mesta – e inedita – campagna maghrebina, concorre al suo successo: un soggetto di estrema attualità, una drammaturgia scarna ma efficacissima, la splendida fotografia “autunnale” di Vincent Gonneville, i volti scavati e provati degli attori. E, nota di colore apparentemente bizzarra e fine a se stessa, i capelli rossicci dei tre figli del pastore, che paiono così marchiati da un destino di sofferenza che, dall’umile nucleo familiare protagonista del cortometraggio, si estende come una nuvola oscura sulla Tunisia intera.

 

Patision Avenue (Leoforos Patision) di Thanasis Neofotistos

Una giovane attrice (Marina Symeou) cammina a passo sostenuto per una delle più trafficate vie del centro di Atene. E’ stata richiamata per il provino che potrebbe finalmente lanciarla: in ballo c’è la parte di Viola ne La dodicesima notte shakespeariana. Ha energia da vendere, e sente che solo poche centinaia di metri e una concorrente poco temibile la separano dall’obbiettivo. Parlando al telefono, si rende però all’improvviso conto che per un malinteso suo figlio Yannis, un bambino, è rimasto a casa da solo. E che nessuno tra i suoi contatti sembra poter andare da lui. Il dilemma è doloroso: tornare indietro e perdere la parte o cercare di trovare una soluzione con una serie di chiamate disperate? Intanto, in lontananza, si sente il frastuono di tafferugli tra manifestanti e polizia.

Premio speciale della giuria e Premio CANAL + nella competizione internazionale, il cortometraggio di Thanasis Neofotistos, già in concorso all’ultima Mostra di Venezia, è innanzitutto una rischiosa prova di forza registica che non può non destare ammirazione. Per tredici minuti la camera resta acrobaticamente incollata alla protagonista – di cui non vedremo mai il volto – lungo strade e marciapiedi, in pieno traffico ateniese, senza mollarla un attimo. Lo spettatore si trova a inseguire – letteralmente – il suo dramma, a ricostruirlo attraverso gli scatti del suo corpo nervoso e i brandelli di conversazioni telefoniche. E mentre la tensione sale e, dentro il personaggio che dal primo all’ultimo secondo occupa il centro dell’inquadratura,  l’impotenza di una madre terrorizzata per il destino del proprio figlio entra in conflitto con l’energia dell’attrice in marcia verso la tanto agognata svolta professionale, la realtà esterna entra progressivamente in campo: prima con i suoni sempre più insostenibili di una città in fermento, poi con tutta la violenza degli scontri di piazza.

Thanasis Neofotistos è un regista di innegabile talento, da tenere d’occhio.

 

The Christmas Gift (Cadoul de Craciun) di Bogdan Muresanu

Romania, 20 dicembre 1989, poche ore prima del celebre discorso di Ceausescu in Piazza della Rivoluzione a Bucarest. Il regime scricchiola e, a seguito dei moti di Timișoara, per le strade si parla cautamente di cambiamento. Ma nonostante le notizie di sommosse e ammutinamenti, la cappa di paranoia che da decenni opprime il popolo rumeno è più forte che mai. Non stupisce dunque la reazione di un padre (Adrian Vancica) quando scopre che il figlio, ingenuamente, ha spedito per posta una letterina a Babbo Natale con su scritto il suo desiderio più grande: che Zio Nicolae muoia. Un misto di panico e orrore si impossessa dell’uomo, portandolo a un rapido esaurimento, tra scatti d’ira repressi (i muri hanno orecchie e i vicini lavorano certamente per la Securitate) e sudori freddi. Una telefonata notturna dall’ufficio interrompe il delirio: presentarsi il giorno successivo, 21 dicembre, in giacca e cravatta. Il resto, come si suole dire, è storia.

The Christmas Gift, il vincitore della trentunesima competizione internazionale del festival di Clermont-Ferrand, è un corto pressoché perfetto. Scritto e diretto da Bogdan Muresanu con grande intelligenza, intreccia abilmente le vicissitudini del protagonista – un uomo qualunque, un rumeno medio che vede spalancarsi le porte del carcere politico a causa di un ridicolo scherzo del destino – con uno dei passaggi storici più importanti della Romania del Ventesimo secolo, rivelando con le armi del sarcasmo e del paradosso tutta la miseria della vita sotto Ceausescu. Nulla di nuovo, sia chiaro, ma brillantemente concepito e realizzato. A cominciare dalla ricostruzione storica, molto accurata, e dall’ottima recitazione.

 

The Passage di Kitao Sakurai

Phil (Phil Burgers) è un uomo mite che, privato da Madre Natura del dono della parola, sembra anche incapace di vivere serenamente il tempo concessogli sulla terra. Braccato da alcuni improbabili ceffi per oscuri motivi, perseguitato dalla sfortuna che volge ogni situazione a suo sfavore, questo Candide dagli occhi sgranati attraversa di corsa lo schermo, passando da saune orientali a balli etnici, da messe in chiese ispaniche a pescherecci scandinavi, da disastri aerei a naufragi. Le sue avventure sono senza fine – tanto quanto la sua fame.

Nel magma della sezione Labo, dedicata ai lavori più sperimentali, The Passage si è distinto per l’energia e l’umorismo selvaggi. Difficile trovare in circolazione un cortometraggio che contenga in appena ventidue minuti un’analoga quantità di gag esilaranti, di momenti improbabili e paradossali, di arditi cambi di scenario. Procedendo sostanzialmente per accumulo, Sakurai e il protagonista e co-autore Burgers – comico e clown americano inventore del personaggio di Dr. Brown – hanno dato vita a un mini-film indefinibile, un insieme di situazioni singolarmente quasi autonome, dominate da un ingenuo campione di stupidità costretto ogni volta a reagire all’assurdità del mondo parallelo di cui è prigioniero prima di finire, ogni volta, a dover fare i conti con i propri ottusi e instancabili inseguitori, capaci di riacciuffarlo ovunque egli si trovi. The Passage avrebbe potuto esaurirsi in pochi minuti, prima dei titoli di testa, in una memorabile sequenza su un aeroplano in panne, oppure stiracchiarsi per un’altra ora – e forse persino oltre. E avrebbe funzionato magnificamente in entrambi i casi. Meraviglie del cinema.

 

 

 

 

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