Cairo International Film Festival 2018 – Donne in pausa: Intervista a Tonia Mishiali

di Massimo Lechi.

La calda accoglienza riservata al quarantesimo Cairo International Film Festival a Pause di Tonia Mishiali vale come dimostrazione del fatto che non servono certo riconoscimenti ufficiali per lasciare il segno in un evento cinematografico. Possono bastare le reazioni concitate degli spettatori e gli strascichi di dibattiti ad alta intensità fuori e dentro la sala – merce ormai rara, in realtà.

Tra i film proiettati in concorso nei dieci giorni (20 – 29 novembre) della prima edizione targata Mohamed Hefzy, l’esordio della talentuosa regista greco-cipriota originaria di Famagosta, pur essendo rimasto fuori dal palmarès, è stato infatti uno dei più applauditi e discussi da pubblico e stampa locali. Stabilire se il successo egiziano di questa intensa e ambiziosa opera prima sia dipeso più da una sensibilità mediterranea condivisa, dalla forza di un soggetto universale, dalla strepitosa interpretazione della protagonista Stella Fyrogeni, dalla precisione tagliente delle immagini o da tutto ciò insieme è in fondo irrilevante. Conta, ai fini della cronaca, che la parabola di Elpida, casalinga di mezza età prigioniera di un matrimonio infelice con un orco insensibile (un bravo Andreas Vasiliou) e scossa dai sintomi della menopausa che la fanno andare in cortocircuito, in un crescendo di violenti sogni a occhi aperti, lancinanti desideri d’amore e sesso e piani di fuga dalla routine, sia riuscita a imporsi senza fraintendimenti per ciò che è: una rappresentazione intelligentemente grottesca della condizione femminile a Cipro.

La presenza al Cairo International Film Festival 2018 di Pause è stata un’opportunità per parlare con Tonia Mishiali, che parallelamente all’attività di cineasta e produttrice co-dirige da tempo i Cyprus Film Days (il festival di Limassol e Nicosia finanziato dal Ministero dell’Educazione e della Cultura nazionale), dei temi trattati nel suo lungometraggio, delle sue scelte di regia e dello stato del cinema cipriota.

 

E’ arrivato prima il personaggio di Elpida, con il suo matrimonio infelice e la sua routine soffocante, o l’idea di fare un film sulla condizione femminile a Cipro?

La mia idea iniziale era quella di fare un film su una donna proprio dell’età di Elpida, l’età della menopausa. Una donna che si ribella – anche se poi, alla fine, non lo fa davvero. Sono molto sensibile al tema della condizione femminile a Cipro: siamo davvero una società patriarcale. Magari non i più giovani di noi, ma le generazioni precedenti, quelle con cui sono cresciuta, sì.

 

Non hai però messo al centro del film una donna della tua generazione. Elpida è addirittura nonna…

Be’, in realtà non sono così giovane nemmeno io! (ride) Ho quarantacinque anni: sono abbastanza vicina alla generazione di Elpida.

 

Una distanza c’è, comunque.

Sì, sicuramente. Non credo che l’età però c’entri molto, è marginale. Il film ha più a che fare con il suo mondo interiore, con il modo in cui lei cerca di scappare dalla condizione in cui si trova intrappolata.

 

Una condizione di cui sembra rendersi conto proprio quando qualcosa inizia a succedere nel suo corpo.

La menopausa è un periodo di transizione, è un punto di svolta nella vita di una donna. La parola “pausa” può dunque significare molte cose: può essere una pausa effettiva, una pausa psicologica, una pausa di riflessione oppure una pausa da cui poter poi tornare come prima o ricominciare con una prospettiva completamente nuova. Per Elpida è come una scintilla grazie alla quale si rende conto che non può andare avanti così, che non può restare. Ma allo stesso tempo lei non ha il coraggio di agire e allora cerca di trattenersi, ed è da questo che prende il via tutto.

 

E alla presa di coscienza segue l’esplosione.

Lei esplode dentro, come fanno tante donne che vivono in società patriarcali. Molte di loro non hanno la forza di prendere la porta e andarsene, e non potendo esprimersi si macerano, diventano pazze o sviluppano il desiderio di uccidere il marito. Il mio è in fondo un racconto morale, una storia ammonitrice.

 

Tu però non racconti un processo di liberazione.

Era importante per me non farlo, anche perché in quel caso il mio sarebbe stato un film già visto. No, volevo proprio far vedere che quelle donne non si liberano ma restano come sono: si fermano, fanno appunto una pausa, e poi riprendono esattamente da dov’erano. E sono la famiglia, i legami e la società a riportarle al punto di partenza.

 

E’ interessante che i movimenti interiori della tua protagonista si svolgano all’interno di uno scenario molto piccolo, chiuso. Tutto avviene simbolicamente tra quattro mura.

Certo, perché lei è reclusa. I suoi mondi interiore ed esteriore sono lì, nell’appartamento.

 

Il fatto di rinchiuderti nell’appartamento con i tuoi personaggi ti ha dato maggiore libertà? Lo spazio cinematografico del film, per come l’hai impostato, è molto simile al palco di una pièce.

Credo che quando si hanno dei limiti e delle restrizioni si può essere più creativi. Nel mio caso ho dovuto pensare a un’idea che andasse bene per il Ministero dell’Educazione e della Cultura, che ha co-finanziato il film. Avevano appena riaperto dopo la crisi del 2013 e sapevo che non avevano molti soldi. Mi serviva perciò un film che fosse facile da realizzare, non troppo costoso, con un protagonista, un paio di personaggi secondari e una location principale. In fase di elaborazione del soggetto ho cercato di muovermi all’interno di questo perimetro.

 

Ti sei imposta dei paletti.

Sì, ed è una cosa che mi ha aiutato.

 

Ha influito anche sul tuo stile di regia? Pause, al di là dell’unità di luogo quasi completa, è un film molto claustrofobico.

Ho sempre avuto in mente questo senso di claustrofobia di cui parli: volevo stare molto vicina ai personaggi, come avevo già fatto nei miei cortometraggi. Mi piace molto la camera a mano e qui l’ho usata per entrare nel mondo di Elpida e per far vedere le cose dal suo punto di vista – sia muovendola dietro di lei oppure frontalmente, mostrando i suoi occhi. Sono tutti effetti voluti.

 

Inoltre eviti di fare del semplice realismo. Sei sempre un paio di spanne sopra, e non solo nelle sequenze in cui Elpida proietta i suoi desideri.

In generale mi piace esagerare. In Pause credo che l’essere andata un po’ sopra le righe mi abbia permesso di enfatizzare quello che avevo da dire. L’ho fatto però in maniera realistica, quasi con delle esplosioni irregolari di esagerazione.

 

E’ una specie di grottesco “leggero”. Penso soprattutto alla figura del marito.

Con lui siamo al limite. Diciamo che non ho voluto spingere troppo… C’erano delle scene in cui sono andata oltre e allora le ho tagliate. Forse, come la mia protagonista non va fino in fondo nel suo percorso di rivolta, anch’io non ho voluto seguire completamente la strada del grottesco.

 

Questo però non va a scapito dell’equilibrio del film, mi pare. C’è come un filo che ti lega alla macchina da presa e al personaggio. Non dirigi dall’alto.

No, infatti. E’ proprio un punto che abbiamo discusso a lungo con Stella e con Yorgos Rahmatoulin, il mio direttore della fotografia. La macchina da presa è come un’estensione di Elpida: sta sempre alla stessa distanza, si fa trascinare quando lei si muove, ma non si sposta mai per mostrare qualcosa che lei non vede. Lo spettatore è sempre nelle scarpe del personaggio.

 

La parte più difficile dev’essere stata girare i flash mentali, le proiezioni di Elpida. Con queste sequenze, immagino, il rischio era doppio: rendere tutto o troppo evidente o troppo criptico.

La linea che ho seguito è stata: quando lei non sa cosa sta succedendo, non lo sa nemmeno lo spettatore. Se faccio vedere la fantasia, subito dopo faccio vedere anche lei che ne esce. Così, quando lei se ne rende conto, se ne rende conto anche il pubblico. L’ho fatto tre volte nel corso del film, fino al momento in cui Elpida inizia a confondere sistematicamente realtà e immaginazione. Da quel punto in poi ho dovuto strutturare tutto in maniera matematica, spiegando ogni volta alla troupe e agli attori cosa stavamo girando.

 

Come hai scelto Stella Fyrogeni?

Stella è la miglior attrice che abbiamo a Cipro. L’ho sempre avuta in mente mentre scrivevo. Era l’unica che avrebbe potuto interpretare il personaggio come volevo. E dal momento che è greca, anche se parla il dialetto cipriota perfettamente, non ho voluto farle pressione per via dell’accento. A un certo punto ho semplicemente aggiunto una breve battuta da cui si capisce che Elpida è originaria della Grecia e che l’hanno portata sull’isola per sposarsi – pratica molto comune una volta, e in parte anche adesso.

 

A proposito di Cipro: in termini di pubblico, a che numeri può aspirare una regista cipriota come te?

Oh, non vale nemmeno la pena parlarne… Un mio amico ha avuto un suo film nei cinema a Cipro per una settimana: il primo giorno era tutto esaurito, poi dieci-quindici persone a sera, non di più.

 

Quindi siete obbligati a guardare all’estero.

Sì, per forza. Ed è una buona cosa! (ride)

 

E’ una buona cosa?

Certo. Guardare al di fuori dei propri confini lo è sempre.

 

In effetti, se prendi Michael Cacoyannis e Yannis Economides, ovvero i due registi ciprioti più famosi di sempre, e chiedi di che nazionalità sono, tutti ti risponderanno che sono greci.

E invece sono ciprioti! (ride) Per via della lingua la Grecia è il paese più vicino a noi, e anche quello in cui è più facile entrare con i nostri film.

 

Siete una sorta di provincia, da un punto di vista cinematografico?

No, non direi “provincia”… Abbiamo persino uno stile diverso: non ci siamo accodati alla cosiddetta Weird Wave, per esempio. Siamo fratelli, in un certo senso – o sorelle. Ed è naturale per noi avere un co-produttore greco – anche se, dal punto di vista dei finanziamenti, la situazione in Grecia al momento è molto peggiore.

 

Quanti film produce Cipro ogni anno?

Nel 2018 quattro: un grande risultato. Negli anni precedenti direi uno o due.

 

Te lo chiedo perché, oltre a essere una regista, sei anche responsabile dei Cyprus Film Days, il principale festival di lungometraggi del tuo paese. Cosa vedi da quell’osservatorio?

Penso che le cose si stiano muovendo bene, nella direzione giusta. Ci sono diversi giovani filmmaker che hanno appena debuttato o che, dopo aver realizzato dei cortometraggi di successo, stanno per girare la loro opera prima. Abbiamo un ottimo futuro di fronte a noi.

 

Ma resta il problema degli spettatori.

Purtroppo non possiamo contare solo sul nostro pubblico, dobbiamo necessariamente guardare alla Grecia. L’altro giorno parlavo a un produttore macedone: anche loro sono nella stessa situazione, il loro box office è morto. Ma il problema, se così si può dire, non è il fatto che Cipro è un’isola. Il problema è che è un paese piccolo.

 

 

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