Ajyal Film Festival 2018 – Stealing Banksy: Intervista a Marco Proserpio e Filippo Perfido

di Massimo Lechi.

Tra i molti film presentati nell’ambito del sesto Ajyal Film Festival (28 novembre – 3 dicembre 2018), il grande evento cinematografico organizzato dal Doha Film Institute con il preciso scopo di promuovere il cinema come strumento di crescita per le giovani generazioni in Qatar, L’uomo che rubò Banksy si è di certo distinto per umorismo, intelligenza e forza narrativa.

Sostenuto dall’ironica voce fuori campo di Iggy Pop, il documentario punk di Marco Proserpio, giovane filmmaker con un passato a MTV e nella pubblicità, ripercorre la storia di Donkey Documents, una delle opere più celebri realizzate in Palestina da Banksy, l’artista inglese senza volto: quella silhouette di un soldato israeliano colto nell’atto di chiedere i documenti a un asino che tanto scalpore ha destato sin da quando, nell’ormai lontano 2007, è stata scoperta sul muro di una casa privata a Betlemme. Una storia entrata nella vita del regista grazie all’incontro del tutto fortuito con l’improbabile Walid the Beast, tassista, bodybuilder e patriota a cui il film riserva il doppio ruolo di narratore-testimone di fatti incredibili (le operazioni di smontaggio del murale su iniziativa del mercante Mike Kanawati) ed  esegeta della street art più satirica e sovversiva (“Fuck you, Banksy!”).

La parabola del controverso graffito, incompreso e accolto con fastidio dal popolo al quale era stato dedicato, poi tolto – rimosso anzi, letteralmente – dal contesto originale per ragioni meramente economiche, rivenduto e rimpallato tra galleristi e case d’aste, diventa così lo spunto per un’ampia riflessione tanto sulla condizione dei palestinesi oltre il muro di separazione israeliano quanto su temi caldi quali il diritto d’autore, la commercializzazione dell’arte contemporanea e l’ambiguità dei messaggi artistici e politici.

La presentazione a Doha de L’uomo che rubò Banksy è stata l’occasione per chiacchierare a briglia sciolta con Marco Proserpio e Filippo Perfido, produttore del documentario, di Palestina, di colonialismo culturale, di street art e delle dinamiche perverse che ne governano il mercato.

 

E’ davvero iniziato tutto dall’incontro con Walid the Beast?

MP: Sì, è vero, l’incontro con lui è stato l’inizio di tutto. In quel momento stavo lavorando per una ONG nella cosiddetta Area C, subito fuori Gerusalemme: una zona desertica in cui c’è il carcere israeliano più grande. Nel mio primo giorno libero sono entrato a Betlemme a piedi e lì la prima persona che ho incontrato è stata Walid the Beast, che mi ha subito raccontato di aver rimosso quattro tonnellate di cemento con sopra un disegno di Banksy.

 

Siamo nel 2012.

MP: Esatto. Immediatamente ho capito di aver di fronte una storia che, pur sembrando molto stupida, poteva contenere la possibilità di parlare di diverse cose: su un primo livello la proprietà privata e il copyright di opere fatte illegalmente per la strada, e poi la Palestina – in maniera però diversa.

 

All’inizio sembra di vedere un mockumentary: è tutto talmente assurdo, i personaggi sono talmente bigger than life da risultare quasi fasulli. Poi il film prende un’altra strada.

MP: Be’, Walid è un personaggio incredibile. Mi è piaciuto sin dall’inizio che abbia quasi voluto sfidare Banksy, questa figura che per noi è Robin Hood ma che per lui non è nessuno. La sua ricezione di Banksy e della street art mi è sempre sembrata molto interessante.

 

Pur non avendo studiato sociologia come alcuni degli esperti che intervistate nel film, Walid arriva a vedere nell’arte di Banksy un elemento paternalistico, quasi coloniale. Capisce istintivamente e liquida con brutalità un punto centrale del fenomeno che in Occidente è pane per i denti di accademici forbiti. Dalla sua presa di coscienza inizia una riflessione sul colonialismo culturale che mi pare sia una delle colonne del vostro documentario.

FP: Il colonialismo culturale è diventato infatti uno degli argomenti centrali sia grazie agli interventi di Françoise Vergès sia grazie a un elemento semplicissimo che avevamo dato per scontato fino a che non è arrivata l’edizione italiana, vale a dire la lingua. Nel film tutti, esclusi gli anglofoni e alcuni europei che hanno una storia culturale personale molto ricca, parlano una lingua non loro: l’inglese. E cercano di trovare un terreno comune su cui esprimere concetti in maniera semplice e diretta – concetti che altrimenti esprimerebbero con lunghi giri di parole e meno scorrettezza politica.

 

Però voi dimostrate molto chiaramente che l’arte, che secondo uno dei più vieti luoghi comuni dovrebbe essere universale, in realtà non lo è affatto. I messaggi artistici, di Banksy e non solo, vengono regolarmente fraintesi.

FP: No, l’arte non è affatto un veicolo di messaggi universali…

 

Una questione di lingua e di contesto, insomma.

FP: Quello che succede quando viaggi per il mondo è che parli una lingua che non è tua e non è dei tuoi interlocutori. Ci sono però sempre dei momenti in cui sei uno straniero: per esempio quando, in macchina, becchi la canzone nella lingua del paese in cui ti trovi – nel nostro caso l’arabo. Se sei in Turkmenistan e senti un pezzo in turkmeno, non capisci quello che stai ascoltando, e questo crea un effetto paradossale perché ti radica e allo stesso tempo rende evidente il tuo essere culturalmente estraneo al contesto. E’ per questo che abbiamo tenuto tre inserti dove per quaranta secondi senti dei ragazzi che rappano in arabo, e non li abbiamo tradotti apposta. L’unico paese che ci ha fatto problemi per la scelta è stata l’Italia.

 

Be’, perché il rap è considerato un genere politico – il più politico, anzi. Anch’io mi aspettavo dei sottotitoli in quei passaggi.

FP: Invece no, niente sottotitoli. E poi la cosa divertente è che l’unico rap politico è di quelli che fanno beatbox, e sembra un pezzo neomelodico.

MP: Quando ascoltavamo rap da più giovani non capivamo una parola, eppure ci piaceva. Era qualcosa di fashionable che riusciva a coinvolgerci.

 

Stessa cosa che si può dire a proposito dell’opera di Banksy?

MP: E’ un discorso molto lungo… Viene sicuramente percepita la superficie del suo messaggio, ma direi che quasi mai una sua azione viene analizzata in maniera sensata. Sembra sempre che si parli di un personaggio immaginario – un Robin Hood immaginario – e quindi tutto viene letto come in una favola.

FP: Ma soprattutto viene percepito come molto romantico e geniale. “Ma come ha fatto a fregarli?”, ci si chiede. E lui non frega mai nessuno.

 

Opere come Donkey Documents per noi sono provocazioni artistiche dal grande valore politico e poetico, mentre per molti palestinesi sono un qualcosa di del tutto velleitario o addirittura oscuro.

MP: Sì, eppure questo non toglie che Banksy, da oltre dieci anni, stia facendo in Palestina delle cose pazzesche. Le sue però sono azioni che vengono fatte per chi sta al di là del muro.

 

Perché invece ai Walid interessano soprattutto libertà e bodybuilding, come dice Iggy Pop a un certo punto.

MP: Assolutamente. Ma è difficile analizzare la situazione: tutto quello che succede da quella parte è controverso. Figuriamoci le azioni di Banksy con le loro implicazioni economiche e mediatiche… Il disegno dell’asino con il soldato non si rivolge ai palestinesi, ma a chi sta dall’altra parte, per far vedere loro come funziona quella realtà.

 

Tra i palestinesi, al di là delle singole reazioni alle singole opere, c’è la sensazione che Banksy stia effettivamente facendo qualcosa per loro?

MP: Il fatto di vivere chiusi in un muro cambia la percezione. E’ sempre molto controverso. Quindi, anche quando stavano aprendo il Walled Off Hotel a Betlemme, sentivo quanto la gente fosse preoccupata che questo potesse portare via clienti ad altri alberghi e ad altri negozi…”Ci sta rubando del lavoro, ci sta fregando un’altra volta.”

FP: Anche perché esisteva già un Banksy Hotel a Betlemme. Era una specie di b&b tenuto da una signora che non aveva mai chiesto nessun permesso… (ridono)

 

Quindi non c’è nemmeno la percezione che Banksy aiuti la causa?

MP: Sai, in dieci anni ne ha fatte tante… La prima fu nel 2007 in Manger Square dove c’è la Basilica della Natività: in una settimana raccolsero un milione e mezzo di dollari. Perciò, con un po’ più di pazienza e analisi, in realtà tutta la popolazione potrebbe capire il significato di queste azioni. Ma se parli con i più anziani, ti rendi conto che per loro i graffiti erano quelli usati durante la Prima Intifada per comunicare e organizzare gli scontri.

 

Però l’ex sindaco di Betlemme che intervistate esalta Banksy quasi fosse un eroe…

FP: Lei e gli altri rappresentanti dell’Autorità Palestinese lo leggono correttamente perché hanno gli strumenti per farlo. Interpretano l’arte di Banksy come un qualcosa in grado di accendere i riflettori e far vedere agli occidentali qual è la loro situazione. Ma per loro è anche un’attrazione turistica: dal 2007 si va apposta a Betlemme per vedere graffiti che a Londra, o in un’altra grande città, non ci si fermerebbe nemmeno più a guardare.

MP: Girando oggi per Betlemme incontri ragazzi di vent’anni che, in quartieri improbabili, privi di qualsiasi attrazione vera, cercano i graffiti di Banksy… Tramite queste nuove rotte turistiche è effettivamente possibile capire qualcosa di più su come vivono i palestinesi.

 

Mi colpisce che non abbiate sconfinato nella parte israeliana. Non avete cercato un contrasto tra i due lati del muro.

MP: Andare dall’altra parte per noi non è mai stata una priorità, così come non lo è mai stata il parlare direttamente del conflitto israelo-palestinese. La Palestina rimane il contesto: se ne parla, ma non nella maniera classica in cui viene affrontata nei documentari sul tema, attraverso i soliti canali. E’ stata una scelta consapevole.

 

Infatti non mostrate scene di sofferenza o di tensione.

MP: La cosa che mi ha convinto che Walid fosse il personaggio perfetto è stato il fatto che, nei giorni precedenti al nostro incontro, i ragazzi della ONG mi spingevano costantemente a riprendere scene di sofferenza. Mi dicevano: “Questo è quello che deve uscire da qui, questa è la verità e basta che la riprendi.”

FP: Però lì c’è anche gente che va a scuola, che va a lavorare, che deve pagare le bollette…

MP: E così ho iniziato a interrogarmi su quanto potesse essere efficace mostrare certe immagini. Pensando ai miei amici a Milano, probabilmente li avrebbero colpiti solo per pochi istanti.

 

Quanto è durata la lavorazione?

MP: Sei anni.

FP: Ma è stata una lavorazione a strappi. Nel tempo sono successe tante cose che avrebbero potuto ribaltare completamente tutto il film: dalla vicenda di Blu a Bologna all’apertura del Walled Off Hotel alla presunta scoperta dell’identità di Banksy.

 

Il documentario è molto composito sia dal punto di vista visivo sia dal punto di vista della struttura. Com’è stato assemblare i vari materiali e fili narrativi?

MP: E’ stato sicuramente complicato. C’era il problema di mettere insieme tanti elementi che apparentemente non avevano una connessione evidente. A livello di montaggio, con il montatore Domenico Nicoletti abbiamo cercato di non seguire un linguaggio documentaristico, con troppi silenzi. Il nostro modo di girare non era stato “silenzioso”, e dunque abbiamo voluto distanziarci dal documentario classico.

 

Eravate una troupe d’assalto, in un certo senso.

MP: Sì, e per questo volevamo che tutto il film avesse un ritmo caotico. La cosa che ci ha aiutato moltissimo è stata l’aver avuto già delle musiche. Gli autori della colonna sonora, che è originale, ci hanno permesso di mantenere il senso di frenesia, il ritmo forsennato con cui avevamo cercato di seguire questa storia che più volte abbiamo perso nel corso delle riprese. La prima volta che hanno venduto il muro ed è finito in Danimarca, per esempio, essendoci una grande cifra in ballo, per contratto non potevano dirmi chi fosse il compratore: quindi io per sei mesi sono stato convinto di aver perso la storia per sempre.

 

E che hai fatto a quel punto?

MP: Ho preso i pochi minuti che avevo girato e ho fatto un trailer falso, con tanto di premi dei festival inventati all’inizio, e l’ho messo online su YouTube. Molte persone mi hanno contattato chiedendomi di mostrargli il film, e tra le email che ho ricevuto ce n’era una di Peter Hvidberg: “Sono la persona che ha comprato il muro. Arriva dopodomani a Copenaghen. Incontriamoci.”

 

L’idea di allargare la prospettiva del film inglobando tutto il discorso legato alla street art e al suo circo di speculazione quando è arrivata?

MP: Be’, alla fine quello che stavamo seguendo in Palestina era una sorta di case study molto particolare, e perciò molto più interessante, di qualcosa che stava succedendo altrove nel mondo. E le gallerie di New York e le strade polverose di Betlemme, anche se sembravano lontane, quasi due universi distinti, in realtà erano collegate. Unendo punti così distanti poteva venir fuori una fotografia più ampia: una fotografia del mondo.

 

Semplificando un po’ brutalmente, si potrebbe dire che il vostro è un film sul capitalismo.

MP: Sì, assolutamente.

 

E il percorso dell’opera che voi ripercorrete è sostanzialmente una tratta.

FP: Qui l’opera è la storia. Una cosa che viene fatta per gettare una luce sulla Palestina, una volta portata via dal suo contesto, perde significato ma aumenta di valore a ogni passaggio successivo. Nel caso di Donkey Documents, Mike Kanawati compra per pochi soldi la casa sulla quale l’opera è stata realizzata. Poi rivende il muro per circa centomila dollari. Arrivata in Danimarca l’opera, in pochi giorni, ne vale già quattrocentomila. Da lì va a Los Angeles e ne vale ottocentomila…

MP: E il finale è in un cassone di legno in un magazzino di una casa d’aste.  

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