Alexandria Film Festival 2018 – Racconti mediterranei

di Massimo Lechi.

La trentaquattresima edizione dell’Alexandria Mediterranean Countries Film Festival (3-8 ottobre 2018) ha avuto luogo in un clima nel complesso sereno, che ben riflette l’atmosfera della seconda chiassosa metropoli dell’Egitto, incessantemente colpita dal vento e scossa dai clacson delle automobili, ma capace anche di offrire angoli e momenti di tranquilla sospensione dal caos nelle stradine che attraversano la città vecchia o nei tratti più riparati della lunga, spettacolare Corniche.

Ad Alessandria d’Egitto non ci sono le tensioni che periodicamente scuotono Il Cairo. E nonostante l’impegnativo e perentorio slogan “Gerusalemme Araba” che, nelle intenzioni degli organizzatori, doveva definire l’edizione di quest’anno, l’evento cinematografico diretto dalla giornalista Mervat Omar non si è mai mosso dai binari di un’ampia e, almeno sulla carta, esaustiva rassegna di cinema mediterraneo.

Ventisei i paesi rappresentati nelle varie sezioni, con la Grecia (omaggi a George Papalios e Nicos Perakis) e il Marocco ospiti d’onore, mentre riconoscimenti alla carriera sono stati attribuiti al nostro Franco Nero, all’attore spagnolo Sebastian Haro e all’attrice francese Anna Mouglalis. Undici i titoli in gara nella competizione araba, dove ha brillato Murmure de l’eau, l’ultimo malinconico film di Taïeb Louhichi, autore del celebre L’Ombre de la terre (1982) e padre del cinema tunisino, scomparso in febbraio a sessantanove anni dopo aver vissuto oltre un decennio in invalidità assoluta a seguito di un grave incidente – condizione che tuttavia non gli ha impedito di scrivere e portare a termine un documentario sulla Primavera Araba e due lungometraggi di finzione.

Quattordici invece, con il Maghreb e i Balcani in evidenza, i film della competizione internazionale, che ha visto la spartizione di tutti i premi principali tra Ana by Day di Andrea Juarrieta, Daybreak di Gentian Koçi e The Miner di Hanna Slak, ovvero due articolati studi di caratteri femminili e il ritratto di un anti-eroe maschile destinato alla sconfitta. Centrale, in tutte e tre le opere, il rapporto con la realtà.

Nell’esordio di Juarrieta, premiato come miglior film, la realtà è la gabbia di responsabilità dalla quale la Ana del titolo (Ingrid Garcia Jonsson, miglior attrice) decide di allontanarsi di nascosto il giorno in cui compare una sua sosia, un suo doppio che occupa la sua esistenza quotidiana sostituendola tanto negli studi quanto nella routine familiare e sentimentale. Ana scappa per le vie di Madrid, trova rifugio in un ostello per anime perse e, con il nome di Nina, completa la rivoluzione impiegandosi come performer in un locale notturno e iniziando una relazione con un uomo sfuggente e misterioso, anch’egli con un segreto inconfessabile. La fuga dalla vecchia se stessa si rivela però – non troppo a sorpresa – del tutto illusoria, e presto le piccole grandi ipocrisie e delusioni che costellavano la vita diurna di Ana tornano a tormentare quella notturna di Nina. Non tutto è a fuoco in Ana by Day e la bella originalità del soggetto rischia talvolta di esaurirsi in trovate visive e di scrittura un po’ artificiose, ma il talento della giovane regista è innegabile. Al resto provvede la convincente interpretazione di Ingrid Garcia Jonsson, una vera rivelazione.

La realtà con cui deve scontrarsi la protagonista di Daybreak, premiato per la miglior sceneggiatura e per la miglior opera prima o seconda, è quella dura dell’Albania di oggi. Sfrattata dal suo appartamento insieme alla figlia, l’ex infermiera Leta (Ornela Kapetani), grazie a un’amica, trova lavoro come badante di un’anziana invalida. Il magro stipendio e la pensione della donna diventano un tesoro da preservare in tutti i modi, anche a costo di mentire e nascondere la verità. Piccolo dramma realista senza particolari ambizioni di critica sociale, ben accolto dalla stampa europea e proposto dall’Albania come candidato di bandiera agli ultimi Oscar, il dolente film di Koçi vive soprattutto di un’intensa prova d’attrice e di una messinscena efficace nella sua linearità.

Ben diverso il respiro che Hanna Slak, vincitrice del premio della giuria e di quello per la miglior regia, ha cercato di dare a The Miner. Bosniaco d’origine ma da tempo residente in Slovenia, Alija (Leon Lučev) è un minatore e padre di famiglia tutto d’un pezzo cui viene chiesto dalla compagnia per cui lavora di ispezionare una vecchia miniera abbandonata da mettere presto sul mercato. Avventuratosi nei meandri della terra, scopre però delle ossa umane, risalenti con ogni probabilità alla Seconda guerra mondiale. Dilaniato tra le richieste dei padroni della miniera (che vogliono chiudere la pratica in fretta e senza scandali) e il proprio senso del dovere (che gli impone di scoprire a chi appartengano i resti dell’ossario e avvertire la polizia), l’uomo si trova a dover fare i conti sia con i propri demoni interiori sia con la realtà omertosa di un paese – ma il discorso è esteso piuttosto chiaramente all’intera ex Iugoslavia – che ha scelto di voltare lo sguardo lontano dal proprio passato di sangue. Squadrato e a tratti dimostrativo, The Miner racconta con onestà intellettuale un’esemplare storia di presa di coscienza e ha come carte vincenti le buone caratterizzazioni di Lučev e del veterano sloveno Boris Cavazza, nel ruolo di un anziano tornato sui luoghi della tragedia dimenticata per saziare la propria sete di verità.

Scandalosamente fuori dal palmarès, di contro, Whispering Sands e Rosemarie, tra le proposte più convincenti tanto del concorso internazionale quanto dell’intero programma.

Il primo segna il ritorno dietro la macchina da presa del tunisino Nacer Khemir, regista di due indimenticati capolavori del cinema arabo, I figli delle mille e una notte (1984) e La collana perduta della colomba (1991), nonché scrittore e artista di talento. Ancora una volta, a far da sfondo alle storie di Khemir, vi è il deserto, spazio esistenziale sconfinato e misterioso nel quale, all’interno di quadri di raffinata eleganza figurativa, i percorsi individuali dei protagonisti si intrecciano con racconti ispirati alla tradizione orale e scritta antica e con complessi e affascinati rimandi al sufismo. Due qui i personaggi principali sullo schermo, un saggio autista barbuto (Hichem Rostom) che non riesce a comunicare con uno dei propri figli adulti e una donna canadese ma di origine araba (Dorra Zarraouk) che vuole attraversare il deserto. Il viaggio, un lento avanzare tra dune, tramonti e architetture abbandonate, è intramezzato dalle storie della guida beduina, brevi, fulminanti e ambigue parabole provenienti da un mondo forse irrimediabilmente perduto, che spiazzano lo spettatore e, lentamente, riappacificano la donna con la propria cultura, legando sempre più le proprie angosce e le proprie ferite a quelle compagno di strada. Sapiente e umanissima riflessione sull’importanza della memoria e dell’eredità culturale in un presente di instabilità e incertezze – anche politiche e sociali -, Whispering Sands avrebbe meritato maggior fortuna all’Alexandria Film Festival 2018.

Esattamente come Rosemarie, opera seconda, a molti anni di distanza da Kalabush (2003), del greco-cipriota Adonis Florides. Protagonista è Costas (Yiannis Kokkinos), ex scrittore di qualche ambizione ridottosi a sbarcare il lunario come autore di una soap televisiva intitolata appunto Rosemarie, che odia con tutto se stesso. Prigioniero delle quattro mura del suo nuovo appartamento, in pieno blocco creativo e con gli ascolti del programma in picchiata, Costas, quasi per caso, inizia a spiare i vicini. Giorno dopo giorno, la prolungata osservazione delle loro liti e dei loro comportamenti eccentrici gli fa ritrovare l’ispirazione, spingendolo a riversare negli episodi della soap la vita quotidiana degli abitanti del suo squallido condominio e ad annullare di fatto ogni distanza tra realtà e finzione. Ma il gioco morboso finisce puntualmente per sfuggirgli di mano a causa della scoperta dei torbidi segreti della problematicissima famiglia della porta accanto. Con un occhio all’Hitchcock de La finestra sul cortile e uno al patetico mondo della televisione, il regista e sceneggiatore fonde commedia nera, satira e thriller, realizzando un sorprendentemente ambizioso affresco della società cipriota contemporanea, divisa in instabili nuclei familiari dominati da altrettanto instabili patriarchi infidi la cui unica occupazione pare quella di salvaguardare ipocritamente una vaga facciata di decoro e responsabilità e nascondere la cenere sotto i tappeti di casa. Un film di grande intelligenza e pulizia formale, quello di Florides. Uno sguardo insolito e mai banale sulle contraddizioni di una parte di Mediterraneo ancora poco esplorata dal cinema.

 

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