Hamburg International Short Film Festival 2018 – Musica e sperimentazione

di Massimo Lechi.

L’Hamburg International Short Film Festival compie trentaquattro anni, ma non li dimostra affatto. Musica non-stop, birra ghiacciata, giovani cinefili in bicicletta e tanto cinema sperimentale: lo spirito della rassegna di cortometraggi dal mondo diretta con passione da Birgit Glombitza e Sven Schwarz non è stato ancora nemmeno parzialmente corrotto da quella tendenza all’istituzionalizzazione e da quel senso di appagamento che, presto o tardi, finiscono con il colpire gli eventi cinematografici di maggior richiamo, trasformandoli in appuntamenti implacabilmente autocelebrativi o, peggio, in veicoli per ego ipertrofici.

Ad Amburgo retorica e compiacimento non sono di casa. Qui, in giugno, nei piccoli cinema di cui è disseminata la città e negli ampi locali della sede di Kaltenkircher Platz, ci si raduna per divertirsi e trovare un cinema diverso. Una diversità, questa, declinata in modalità narrative ed estetiche lontanissime tra loro, e soprattutto mai strombazzata o fatta cadere dall’alto. Difficile, del resto, prendersi troppo sul serio quando la cornice di una proiezione è data da luci stroboscopiche, casse che rimbombano disco music anni Settanta e accreditati che si sfidano al minigolf indoor.

Va da sé che, come negli anni precedenti, l’insieme delle proposte cinematografiche di questa edizione 2018, tenutasi tra il 5 e l’11 giugno, sia stato assai composito, con le due sezioni principali, il concorso internazionale e quello sperimentale, divise rispettivamente in otto e in sei programmi – ciascuno dei quali composto da cortometraggi accomunati da costanti tematiche e stilistiche più o meno evidenti. La prima è stata vinta da Flores di Jorge Jácome (che ha conquistato anche l’Audience Award), ennesima conferma dell’ottimo stato di salute del cortometraggio portoghese. Nella seconda, denominata Deframed, sorta di grande calderone nel quale è possibile trovare ogni sorta di bizzarrie visive, spesso ai confini con la videoarte, si è invece imposto Monelle dell’italiano Diego Marcon. Riconoscimenti delle giurie a parte, entrambi i titoli sono effettivamente risultati essere tra più incisivi di un programma non certo avaro di stimoli e suggestioni.

Di seguito, in ordine alfabetico, una piccola selezione del meglio del trentaquattresimo Hamburg International Short Film Festival:

Flores (Portogallo, 2017) di Jorge Jácome  –  Metà diario intimo e metà documentario, frammentato da costanti divagazioni e salti narrativi, Flores ha come ambientazione delle inedite Azzorre completamente ricoperte di ortensie. In questo scenario di catastrofe naturale irreversibile, l’invasione dei fiori viola ha costretto la popolazione delle isole vulcaniche ad abbandonare le proprie case, mentre gli unici veri abitanti sono ormai giovani soldati spediti dalla terraferma a presidiare il territorio e favorire le ultime evacuazioni. La macchina da presa ne segue due, una coppia di reclute dai corpi scolpiti e l’animo sensibile, mentre si addentrano in una natura magnifica e tossica che li avvolge e isola dal resto del mondo. Mescolando distopia e poesia, Jorge Jácome dà vita a una toccante riflessione sui temi dell’identità e dell’appartenenza, ricca di riferimenti all’immaginario della letteratura portoghese (i soldati bloccati in un limbo caldo e sonnacchioso, le meditazioni diaristiche dal fronte, l’omoerotismo, il paradiso ostile) su cui domina un profondo senso di nostalgia.

Monelle (Italia, 2017) di Diego Marcon –  Difficile, se non addirittura inutile, descrivere il cortometraggio che si è aggiudicato la palma tra i lavori sperimentali. Interamente girato nella vecchia Casa del Fascio di Como, concepita dal razionalista Giuseppe Terragni, Monelle è di fatto uno schermo nero sul quale una serie di flash di luce aprono squarci improvvisi e inquietanti, rivelando per pochi secondi dei quadri fissi in cui corpi di giovani ragazze dormienti sono affiancati da misteriose figure – fantasmi? demoni interiori? – dai lineamenti deformati in computer grafica. Niente di più e niente di meno. Quelle di Diego Marcon sono schegge di cinema notturno capaci di lasciare nello spettatore un leggero – e tutt’altro che fastidioso – senso di inquietudine e smarrimento.

 Mountain Plain Mountain (Giappone/Olanda/Spagna, 2018) di Yu Araki e Daniel Jacoby  –  Yu Araki e Daniel Jacoby immergono lo spettatore nella realtà del Ban’ei, la corsa di cavalli da tiro di Obihiro, nel Giappone settentrionale. Una realtà che lo sguardo dei due giovani registi osserva e sezione in cerca di dettagli suggestivi o spiazzanti, fotografati con fredda precisione e inseriti con malizia in una narrazione frammentata nella struttura e incalzante nel ritmo. Questo inarrestabile crescendo visivo e sonoro ha il suo culmine in una sequenza orgasmica in cui la voce di uno speaker, nel raccontare con enfasi una corsa, esplode in una serie incomprensibile di rantoli, versi e suoni trascritti letteralmente in simultanea sullo schermo, con esiti assolutamente esilaranti. Il cortometraggio più folle del concorso internazionale.

Oumoun (Tunisia/Belgio, 2017) di Fairuz Ghammam  –  Il primo piano, lungo quattordici minuti, di un’anziana tunisina che si lascia riprendere dalla nipote – la regista stessa – che da sempre vive in Belgio e che le fa ascoltare una registrazione in cui, per la prima volta, le parla in arabo. La sinossi di Oumoun non è certo particolarmente invitante: parrebbe di essere alle prese con quel genere di prodotto audiovisivo di fronte al quale, parafrasando la battuta di un celebre film con Gene Hackman, si ha spiacevole sensazione di star seduti a guardare asciugare la pittura. Eppure questo breve, grezzo e sgranato filmino di famiglia, ripescato a distanza di anni e riconfigurato, non senza rischi, come frammento documentaristico per un pubblico più ampio, ha in sé qualcosa di indefinibile che attrae, che affascina. Riprendendo una donna seduta nella propria casa, incapace di comunicare a fondo con i propri nipoti in piedi dietro la videocamera, costretta inoltre a evitare imbarazzo e silenzi con una goffa serie di frasi fatte, domande retoriche e commenti ad alta voce, Fairuz Ghammam ha immortalato i preziosi attimi di un dialogo faticoso ma inevitabile tra due culture e due generazioni.

Terremoto Santo  (Brasile, 2017) di Bárbara Wagner e Benjamin De Burca –  Un sorprendente viaggio nel mondo delle chiese evangeliche del Pernambuco, nordest del Brasile, vera e propria industria della fede tenuta in piedi da predicatori carismatici, radio invasive e hit discografiche a metà tra l’inno religioso e il canto motivazionale. Bárbara Wagner e Benjamin De Burca propongono questo bizzarro segmento della società brasiliana, dove l’etica protestante convive con i riti africani e la ricerca di Dio è tutt’uno con quella del successo economico, in un corto  volutamente patinato e irresistibilmente sarcastico, costruito in gran parte come un susseguirsi di brevi videoclip musicali di gusto assai discutibile. Già in concorso all’ultima Berlinale, Terremoto Santo, mettendo in immagini – e in musica – il protestantesimo materialista carioca, offre uno sguardo intelligente e mai banale su uno dei tanti cortocircuiti socio-culturali del paese dei contrasti e dei paradossi.

 Tudo O Que Imagino (Portogallo, 2017) di Leonor Noivo –  La talentuosa Leonor Noivo, già produttrice de A Fàbrica de Nada di Pedro Pinho, racconta in questo splendido e fortunato cortometraggio – Rotterdam, Vila do Conde, Lipsia, Rotterdam e Clermont-Ferrand alcuni dei festival in cui è stato proiettato – le peripezie amorose e i dilemmi esistenziali di André, un mulatto riccioluto di Alcoitão che nell’ultima estate prima dell’ingresso nell’età adulta si divide tra gli amici rapper, una bellissima e timida adolescente africana e una ragazza borghese bianca dai grandi occhi. Sospeso tra fiction e documentario, Tudo O Que Imagino è un ibrido fascinoso, fotografato con la consueta bravura da Vasco Viana, che vale sia come romanzo di formazione sentimentale (i momenti di intimità del protagonista con le due ragazze sono resi con innegabile pudore) sia come affresco di un Portogallo povero, multietnico e periferico finora poco esplorato al cinema.

 

 

 

 

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