Istanbul Film Festival 2018 – Genova – Istanbul – Napoli e ritorno: Intervista a Pivio

di Massimo Lechi.

La partecipazione alla giuria internazionale del trentasettesimo Istanbul Film Festival ha permesso a Roberto Pischiutta in arte Pivio di tornare ancora una volta nella città dove, inaspettatamente, è iniziato il suo percorso professionale nel cinema.

A Istanbul è infatti ambientato Il bagno turco (1997), esordio registico di Ferzan Özpetek e prima colonna sonora – fortemente influenzata dalla tradizione musicale mediterranea – firmata da Pivio e Aldo De Scalzi. Una coppia di amici, di curiosi ed estrosi musicisti genovesi che da quel momento sono diventati due tra i più apprezzati e richiesti compositori italiani. In vent’anni, oltre cento titoli tra cinema (con Alessandro D’Alatri, Renzo Martinelli ed Enzo Monteleone, tra i tanti) e televisione (Distretto di polizia e L’ispettore Coliandro su tutto), più molti progetti discografici solisti e premi, non ultimi i David di Donatello per Ammore e malavita (2017), forse il punto più alto della loro lunga collaborazione con i Manetti Bros.

L’incontro al festival è stato una preziosa occasione per parlare con Pivio della sua fortunata carriera, dell’amicizia con il sodale Aldo, della neonata Associazione Compositori Musica per Film (ACMF), di una pazza idea chiamata It’s Fine, Anyway e delle città che hanno fatto da sfondo ad anni di intense ricerche musicali.

 

Istanbul è il luogo dove la tua carriera di compositore per il cinema è iniziata.

Sì, almeno per quanto riguarda il mio rapporto con il cinema. In realtà mi occupavo di musica già da parecchio tempo – anche con Aldo. All’epoca però facevo l’ingegnere elettronico, e quando c’è stata l’occasione di comporre per il film di Ferzan lavoravo per il giornale El País.

Come hai conosciuto Özpetek?

L’incontro è avvenuto in maniera piuttosto rocambolesca. Ero da un amico a Todi, un lunedì di Pasqua. Lì ho conosciuto Marco Risi e Francesca D’Aloja, il produttore e l’attrice protagonista del film. Mentre giocavo con i cani loro ascoltarono un disco che tempo prima avevo fatto con Aldo, Deposizione. Marco rimase colpito e dopo un po’ di tempo mi mise in contatto con Ferzan. La cosa bizzarra è che l’appuntamento mi venne dato di fronte a dove abitavo a Roma: attraversai la strada e mi ritrovai a casa sua. Evidentemente era destino.

Il film era finito?

Il film era pronto. Stavano cercando di portarlo a Venezia ’96, quindi c’era una certa urgenza. Ferzan ci disse infatti che avremmo avuto a disposizione solo dodici giorni. Allora chiamai Aldo e, in maniera quasi divertita, decidemmo di accettare il lavoro. Risultato: prendo un po’ di ferie, vado su a Genova e in dodici giorni facciamo una colonna sonora abbastanza in linea con Deposizione. Tutto funzionò, non ci furono problemi. Il film venne preso l’anno dopo a Cannes, e lì per me fu una folgorazione – Aldo non era venuto, non ricordo per quale motivo. Sul volo di ritorno per Madrid ho scritto le mie dimissioni e ho smesso di fare l’ingegnere. Quindi sì, effettivamente Istanbul è stata un punto di svolta.

Tu nasci come frontman degli Scortilla, una band new wave genovese con cui hai avuto un buon successo nei primi anni Ottanta. Poi hai cambiato vita e sei appunto diventato ingegnere. Conoscevi già Aldo De Scalzi quando ti sei trasferito a Roma?

Sì, con Aldo ci conoscevamo già da tempo. Tra fine anni Settanta e primi anni Ottanta la scena musicale a Genova era molto attiva. Magari poco conosciuta, un po’ isolata, perché non avevamo una vera e propria industria discografica, ma molto attiva. E’ in quel periodo che ci siamo incontrati.

Lui faceva parte dei Picchio dal Pozzo. Prog e new wave: un matrimonio particolare.

Però i nostri ascolti erano abbastanza variegati: non eravamo chiusi nei rispettivi generi musicali. Fu per caso che ci focalizzammo su diversi prodotti… Aldo suonava con i Picchio dal Pozzo, ma aveva anche un gruppo ska, e per anni aveva realizzato dischi di cover. Io non l’ho mai fatto, ma solo perché non ne ho avuto l’occasione. Ancora adesso ci muoviamo su un ampio spettro, che poi è uno dei motivi per cui siamo riusciti a trovare una nostra via nel mondo delle colonne sonore cinematografiche. Aver avuto l’interesse e la curiosità di conoscere tanti ambiti sonori è stata la nostra fortuna. Basti pensare che per il nostro secondo film, Le faremo tanto male di Quartullo, eravamo convinti di dover comporre qualcosa di simile a Il bagno turco e invece ci ritrovammo a fare gospel e ragtime. E’ stata una lezione.

Poi avete incontrato Claudio Caligari, in occasione de L’odore della notte. Che ricordo hai di lui?

L’incontro fu dovuto, di nuovo, a Marco Risi. Ho frequentato Claudio con una certa assiduità, perché dopo la lavorazione de L’odore della notte abbiamo avuto molte occasioni di vederci e di parlare di cinema, di politica e dell’Italia. Era una persona fantastica, seria, rigorosa, con un suo umorismo tutto particolare e di grande cultura. Era sempre molto attento all’aria che tirava ed estremamente risoluto nella sua idea di arte. Questo non l’ha aiutato a produrre più di quanto abbia fatto: tre film sono stati davvero troppo pochi per una personalità del genere.

Come fu la collaborazione?

Anche quella fu un’esperienza strana. Ricordo che l’unica sonorità che voleva inserire nel film era un pezzo di Iggy Pop, che poi non ha potuto utilizzare: Lust for Life. Credo perché secondo lui sia il ritmo sia il testo davano il senso del film, della storia di questo poliziotto che si lascia attrarre dal mondo della malavita.

Effetto Trainspotting.

Sì, esatto. Evidentemente lo aveva un po’ colpito… La colonna sonora, in realtà, è tutt’altra cosa: molto più oscura, notturna, costruita su groove distorti, chitarre cattive e un tema portante fatto con la tromba. L’abbiamo scritta in pochissimi giorni – cinque, se non ricordo male – perché siamo stati presi da una specie di raptus.

Questa capacità di passare da un genere musicale all’altro attraversa tutta la vostra carriera, mi pare.

Nelle centotrenta colonne sonore che abbiamo firmato da Il bagno turco a oggi trovi infatti cose molto diverse tra loro: dalla musica tradizionale del bacino del Mediterraneo a quella balcanica, dalla sinfonica all’elettronica spinta… Recentemente, per Il tuttofare, abbiamo recuperato il jazz alla Umiliani e Trovajoli, che poi è stata la colonna sonora della commedia all’italiana più conosciuta. Non ci siamo mai fatti scrupoli nel trovare soluzioni sonore: ricordo che in Lupo Mannaro di Antonio Tibaldi la musica era sostanzialmente fatta da versi di animali feroci inseriti in un contesto prog con mellotron e sax alla Mel Collins.

In una vecchia intervista Aldo De Scalzi ha dichiarato che lui ha un’anima più pop-melodica mentre tu sei la mente cinematografica.

(ride) Be’, è indubbio che, se dovessimo fare un paragone con i Beatles, lui sarebbe Paul McCartney e io John Lennon. Lui è l’anima più pop e io quella più dannata, diciamo. Ma poi è tutto molto intercambiabile: ci sono molte sfumature di grigio – tanto per citare un orribile film. Per cui anche lui ha il suo coté maledetto e io il mio lato più romantico. In questi quarant’anni abbiamo imparato a conoscerci bene: quando lavoriamo siamo in totale sintonia, una sorta di mente unica. Quando abbiamo iniziato a lavorare a Il bagno turco, la musica è venuta fuori quasi cantandola insieme. E’ un meccanismo strano, una fortissima simbiosi che faccio fatica a spiegare.

Finora come vi è capitato di lavorare alle colonne sonore? Immagino sia più frequente il coinvolgimento a film finito, come nel caso del primo Özpetek.

Di solito veniamo coinvolti a film in corsa o quasi già finito, quindi ci ritroviamo a lavorare con il regista con una tavolozza già ampiamente definita. Ma siamo intervenuti anche in fase di scrittura oppure durante le riprese, lavorando sui giornalieri. Una delle regole che ho imparato facendo cinema è che non ci sono regole.

Chi viene da voi però sa che la vostra cifra è la contaminazione.

Direi di sì. In linea di massima veniamo considerati di ampie vedute. La nostra cifra musicale è che abbiamo tante cifre musicali.

E’ interessante come il vostro gusto per la contaminazione – mi ripeto – si sia accompagnato al lavoro di registi che, seppur in maniera molto particolare, hanno spesso cercato di reinventare o reinterpretare il vecchio cinema di genere.

Ah, certo. Questo, per quanto mi riguarda, è quasi un ritorno alle origini. Quando Aldo parla della mia cultura cinematografica si riferisce al fatto che mio padre, quando ero molto piccolo, per tenermi tranquillo, mi ha portato al cinema tante tante volte. All’epoca la distribuzione cinematografica permetteva di avere nella stessa sala in orari diversi film diversi. Film che di solito erano di genere – peplum, western, fantascienza – e che alla fine mi sono entrati in circolo. Abbiamo avuto tante occasioni, in questi venti anni, di confrontarci con il cinema di genere, ed è una cosa che mi piace molto. Probabilmente perché appunto c’è una sorta di affezione infantile, che poi ritorna.

Questo è un sentimento che certamente ti lega ai Manetti. Con loro avete collaborato a lungo e, in un certo senso, da autori di colonne sonore siete diventati co-autori di film tout court.

Be’, sicuramente con i Manetti si è creato un feeling molto forte. In effetti, spesso ci coinvolgono prima delle riprese. In Piano 17, per esempio, buona parte della colonna sonora è stata composta prima che loro iniziassero a girare – cosa che poi hanno fatto tenendo conto del ritmo che avevamo pensato. Quindi, come vedi, è un’altra modalità di lavoro rispetto a quella di musicare un film già montato. Con loro si può fare. Nel caso di Ammore e malavita invece era anche una necessità produttiva: nel film ci sono quattordici canzoni, tutte cantate dagli attori.

In Song’e Napule e Ammore e malavita, che poi sono le vostre colonne sonore di maggior successo, c’è un grande lavoro sulla tradizione musicale napoletana. La canzone neomelodica, in particolare, con voi diventa parte organica del film e non più elemento straniante o addirittura contrappunto ironico come è spesso stata in passato – penso all’inizio di Gomorra, per esempio.

Il discorso sulla musica neomelodica vale soprattutto per Song’e Napule. In Ammore e malavita siamo andati un po’ oltre: siamo partiti dallo studio della tradizione napoletana più alta – mitigata poi da una forte dose di rhythm & blues – e degli stilemi della sceneggiata, che si basano su meccanismi sonori differenti da quelli della musica neomelodica, con strutture armoniche molto complesse. Già dall’incipit, il pezzo cantato da Carlo Buccirosso, è evidentissimo il punto di partenza: la tradizione napoletana, quella più conosciuta nel mondo, rifatta però a modo nostro. Noi poi siamo genovesi: la nostra è una rilettura rispettosa, ma di due persone che non fanno parte del substrato culturale da cui è nata quella musica.

L’interesse per Napoli e per la musica napoletana mi sembra sia un tratto distintivo di molto cinema italiano contemporaneo. Sono certo, a questo proposito, che tu abbia apprezzato il lavoro fatto da Enzo Avitabile in Indivisibili. Come ti spieghi la riscoperta di queste radici musicali?

Probabilmente perché, da diversi anni a questa parte, è proprio Napoli a essere risorta. La città, dopo un periodo di grande decadenza, ha vissuto una sorta di rinascimento interno, che evidentemente si rispecchia nella proposta artistica, a tutti i livelli – teatro, musica, cinema. Quest’anno, ai David di Donatello, la maggior parte dei film che hanno ottenuto riconoscimenti avevano un qualche riferimento al mondo napoletano. Non è un caso. D’altronde ci sono corsi e ricorsi nella storia: negli anni Settanta le città del cinema erano Napoli e Genova. Forse io e Aldo abbiamo trovato una sorta di somma ideale: proporre qualcosa che suona napoletano e che però è fatto da dei genovesi. (ride)

A Napoli c’è fermento, dunque.

Sì, ma ci sono altre città che sono sul punto di esplodere di nuovo. Però forse manca la miccia… Parlo anche di Genova.

Lì volevo arrivare.

A Genova c’è una scena musicale pazzesca, che forse troverà un suo momento magico. Le potenzialità ci sono tutte, ma manca ancora la spinta della città.

In cosa consiste la tua “genovesità”? A livello artistico-musicale, intendo.

Genova è sempre stata un crogiuolo di razze e culture. Questo aspetto l’ho vissuto, e ha certamente dato dei frutti.  Io stesso sono un genovese acquisito: mio padre era friulano e mia madre è veneta. Mi sento molto genovese, ma sono il primo della famiglia. La lingua genovese, poi, ha legami con il mondo arabo… So che può sembrare una battuta mal posta, ma non è casuale che Crêuza de mä sia venuto fuori lì. Prima di quel disco c’erano state altre operazioni di contaminazione musicale di culture diverse, ma è solo con De André – e con Pagani – che è stato possibile trovare una forma definitiva.  Genova, insomma, come tanti porti di mare, ti permette di entrare in contatto con altre realtà. Per i caruggi hai modo di incontrare senegalesi, marocchini, centroamericani, e di loro noti come quasi tutti cerchino di integrarsi, più che in altre città. Una cosa analoga capita solo a Napoli.

Che è poi la caratteristica della città di assorbire e armonizzare l’alto e il basso, e, più in generale, elementi molto diversi e persino in contrasto tra loro. Anche nel paesaggio: penso a Corso Italia e ai caruggi…

Esattamente! Nonostante la visione che si ha di Genova da fuori, come di una città chiusa e difficile da affrontare e da penetrare, ci sono in realtà tutta una serie di sacche di accoglienza molto resistenti. Questo porta inevitabilmente al confronto e all’arricchimento delle persone. Ed è probabile che abbia anche influito sulla nostra proposta musicale.

Parallelamente alla tua attività di autore, nell’ultimo biennio ti sei dedicato a due progetti piuttosto impegnativi: l’Associazione Compositori Musica per Film e It’s Fine, Anyway, disco solista da cui è derivato un progetto cinematografico che ti vede nelle vesti di regista. Partirei dall’ACMF, di cui sei fondatore e presidente. Com’è nata questa impresa?

Nel corso dei decenni ci sono stati tanti tentativi da parte dei compositori italiani di trovare un momento di aggregazione. Ennio Morricone ci aveva provato negli anni Settanta senza riuscirci, probabilmente perché le condizioni del cinema italiano erano tali da consentire a tutti una vita agiata, con ottimi risultati artistici ed economici. Adesso però il nostro cinema vive un momento di difficoltà: si producono sì molti film, ma pochi di essi riescono ad avere successo. Di conseguenza anche il lavoro del compositore si è fatto più difficile. Molti non lo sanno, ma per anni i produttori cinematografici non si sono minimamente interessati della parte musicale perché se ne occupavano gli editori. Ora gli editori sono scomparsi e quindi non c’è più nessuno che affronti l’aspetto economico del nostro lavoro.

Quasi lavoraste ai film senza farne parte, da elementi esterni.

Chi si occupa di questi poveri compositori? (sorride) E’ un bel problema… Alcuni di noi si sono adeguati alla situazione creando società di edizioni con cui provare a trovare formule per autofinanziarci, ma non è una vera soluzione… Così, quando viene approvata l’ultima legge sul cinema, io e altri colleghi pensiamo sia finalmente venuto il momento di rendere, diciamo, edotto chi di dovere della condizione della categoria e del settore musica – settore importante non solo a livello artistico ma anche occupazionale. Quale miglior occasione per fare una proposta concreta da inserire nei decreti attuativi e chiedere che una percentuale del budget – parliamo di fondi ministeriali, pubblici – venga destinata alla realizzazione di colonne sonore originali? Con molta fatica riusciamo a far arrivare una lettera sottoscritta da tutti noi compositori in attività al direttore generale della sezione cinema, il dottor Borrelli. L’incontro con lui avviene diversi mesi dopo, nell’aprile 2017, e ci accorgiamo che nessuno ha la minima idea di quali siano le condizioni in cui lavoriamo e di quante siano le persone che coinvolgiamo. Nei decreti attuativi, della nostra proposta, non è poi rimasta traccia, e questo ha reso necessario creare un’associazione di categoria. Ora però, a distanza di un anno dalla fondazione di ACMF, avvenuta nel giugno scorso, qualcosa si sta muovendo.

Che tipo di iniziative sostenete?

Per esempio, presto lanceremo una manifestazione, patrocinata da Ministero degli Esteri, Cinecittà e Istituto Luce, che permetterà a cento persone, tra cui molti compositori, di andare in giro per il mondo a parlare del cinema italiano. Incontri, cioè, in cui nostri rappresentanti potranno introdurre i film in cui hanno lavorato, raccontando di come è stata realizzata la colonna sonora – io stesso sarò a Pechino il 18 giugno con Ammore e malavita. Nel tempo, poi, come ACMF, abbiamo partecipato a diversi festival, con delle master class dedicate alla musica da film.

E naturalmente continuerete la vostra battaglia per migliorare le condizioni di lavoro della categoria.

Sì, anche perché il rischio è quello di ritrovarci a essere delle one man band, non potendo coinvolgere altri musicisti al di fuori di noi stessi. Cosa che ovviamente avrebbe ripercussioni artistiche e non solo: ci sono già state fior di orchestre che sono scomparse perché non potevamo più garantire loro un’adeguata quantità di lavoro.

Questa è una cosa molto triste, ma che è comunque impossibile non notare. Un ridimensionamento c’è stato, soprattutto se pensiamo alla ricchezza delle colonne sonore del nostro cinema negli anni Sessanta e Settanta, epoca in cui persino i film più mediocri avevano partiture strepitose composte da gente come Piccioni o i già citati Trovajoli e Umiliani.

E’ verissimo. Ma, ripeto, questo deriva dal fatto che sono venute a mancare le risorse per realizzare sogni e progetti un po’ più ambiziosi. Personalmente non ho nulla contro musiche che si basano su pochi elementi: prima parlavi della mia stagione new wave, ma io dentro di me sono un punk, e lo sono da quando avevo tre anni. Quindi, lungi da me pensare a colonne sonore solo ed esclusivamente in una logica orchestrale. Tutt’altro. Però un conto è poter scegliere se affrontare una colonna sonora con un’orchestra importante, e un conto è dover scegliere di lavorare solo con un quartetto d’archi perché non ci si può permettere, già in fase di scrittura, il coinvolgimento di un allargato organico.

La strada è lunga.

Sì, ma penso che qualche piccolo segnale di miglioramento, dovuto al fatto che ci siamo uniti e che abbiamo cercato di fare massa critica, ci sia. Confido che in un futuro, magari non prossimo, le cose possano andare ancora meglio.

Parliamo di It’s Fine, Anyway.

Tutto parte da un mio disco solista, ricco di riferimenti alla new wave storica e dove mi ritrovo a fare il cantante. Sono undici canzoni, più una bonus e altri trucchi, in cui racconto di amori malati e di difficoltà del mondo giovanile. Con Marcello Saurino avevamo pensato di realizzare il videoclip di un pezzo, come di solito si fa per il lancio. L’idea si è sviluppata in un cortometraggio che ha una forte presenza musicale e pochissime battute, in giapponese e inglese. E’ la storia di due ragazze che hanno un’avventura di una notte e si ripromettono di rivedersi, non sapendo di essere entrambe coinvolte, per motivi diversi, in un combattimento clandestino all’ultimo sangue. Visto il successo, con la vittoria di un Nastro d’Argento e di altri premi, abbiamo poi deciso di scrivere altri undici episodi che rimandano alle canzoni del disco: undici storie autoconclusive, legate tra loro da personaggi comuni.

Sono storie in cui dai sfogo al tuo lato dark?

Decisamente! (ride) Gli episodi hanno un’alta tossicità e un alto tasso di morti: pochi personaggi si salvano. Ma in definitiva, poi, perché mantenere in vita l’umanità? Fa solo danni. Quindi è meglio ripartire da capo, con una nuova forma di evoluzione che speriamo possa portare risultati migliori.

E più soldi per i compositori.

E più soldi per i compositori, certo. (ride)

Tu stesso però avresti modo di ripartire. Da regista.

Infatti mi piacerebbe riuscire a portare a termine il progetto. Anche perché ho notato che ogni tot anni la mia vita ha uno scarto molto forte. E’ successo vent’anni fa quando ho abbandonato la mia attività di ingegnere, e forse questa è un’ulteriore occasione di cambiare il mio percorso… D’altronde io sono sempre stato una persona curiosa, mi è sempre piaciuto mettermi in gioco. E’ bello poter rischiare ogni tanto, evitando di restare fedeli a se stessi per sempre.

Non saprei dire se questo sia un pensiero molto o poco genovese.

Credo sia molto genovese. Il Sessantotto italiano è nato a Genova, ogni svolta significativa nella storia del paese è stata determinata da un moto nato a Genova. Sì, secondo me la rivoluzione fa parte del nostro DNA. In qualche modo, nel suo piccolo, ognuno di noi cerca di realizzarla… Magari non ci si riesce, però il tentativo lo si fa.

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