Luigi Perelli: Io, “La Piovra” e il cinema americano

 

di Renato Venturelli.

E’ conosciuto in tutto il mondo per la “Piovra” televisiva, il regista dei 17 milioni di spettatori per la morte del commissario Cattani, uno dei primi in Italia a cercare di fare tv coi modi del cinema spettacolare. Lo spezzino Luigi Perelli ha appena compiuto ottant’anni e ricorda come è arrivato a quel momento di grande successo internazionale: e come poi è finito. Cominciando dalla sua idea del cinema come rapporto emotivo e comunicazione spettacolare, fin dagli anni in cui dirigeva documentari politici.

“Ho sempre avuto due passioni fin da ragazzo: leggevo tantissima narrativa, e amavo andare al cinema per farmi contagiare dalle emozioni. La decisione di dedicarmi al cinema la presi quando ero all’Università, Scienze Politiche a Firenze. Lì frequentavo cineclub cattolici di sinistra, molto attivi, e circoli cineamatoriali a 8mm., perché mi interessavano le questioni tecniche: ho fatto spesso la fotografia dei miei film, e anche ai tempi della Piovra, spesso dietro una delle cineprese c’ero io. Mi laureai con una tesi di cinema, “Sociologia della produzione cinematografica”, poi feci il concorso per il Centro Sperimentale e lo vinsi, frequentandolo dal 1961 al 1963″.

Quali film la interessavano di più?

“Ero affascinato soprattutto dal cinema americano, e in particolare da quei polizieschi e noir fatti da registi europei che erano fuggiti all’epoca del nazismo e avevano creato a Hollywood un tipo di cinema al tempo stesso civile e d’azione. Una passione che non trovava invece corrispondenti analoghi nel cinema italiano. Anche il famoso poliziottesco, all’epoca, mi sembrava orrendo”.

Però gli esordi sono nel documentario.

” Siccome mi occupavo di sociologia e stavo facendo parecchia attività politica, inizialmente feci molto documentarismo. Ma anche quando facevo documentari, cercavo di coinvolgere lo spettatore sotto l’aspetto emozionale. Ricordo che “Panorama” si occupò di quello sulla strage di Brescia per la diffusione estrema che ebbe, perché lo volevano tutti i circoli. Anche nel documentario politico volevo mantenere una capacità di comunicazione spettacolare, perché è fondamentale avere un rapporto caldo col pubblico, procedere solo concettualmente non aiuta a trasmettere”.

Poi cominciarono anche i film…

” Al cinema ho fatto un western comico, Lo chiamavano Verità (1971), che era soprattutto un gioco, un modo per girare un film in un momento in cui non riuscivo a fare quello che volevo. Anche Amore grande, amore libero (1976) è un film secondario, un’opera giovanile. Invece il film in cui mi riconosco, ho creduto e lo difendo ancora è 18 anni tra una settimana, del 1991, con Simona Cavallari, Ennio Fantastichini… Raccontava la nascita di un boss, che ha un percorso di formazione costellato di tanta durezza: uno dei personaggi veniva garrotato, un altro era costretto ad assistere a questa scena per imparare cosa può succedere… Il film non venne apprezzato, forse era sbagliato per quegli anni”.

Ma nel frattempo era arrivata la Rai…

“Quando finalmente ho avuto occasione di cominciare a lavorare per la Rai, tutta la storia della mia formazione congiurava per trovare uno sbocco ideale nella Piovra!  I miei amori erano i classici americani noir e d’azione, magari integrati da Melville e dai francesi, poi c’era la componente politica e infine la voglia di raccontare facendo grande spettacolo… Cercando magari di infilarci anche le mie letture, a cominciare da Dostoevskij e Thomas Mann (Doktor Faustus fu per me una vera rivelazione)”

Come fu chiamato a dirigere La Piovra?

“Non avevo lavorato alle prime due serie. Ai tempi in cui la prima Piovra di Damiani fece risultati eccezionali, io feci la miniserie Quei 36 gradini (1984) che ebbe il 51% di ascolti, appena un punto in meno della Piovra: era scritta da Ennio De Concini, col quale ebbi poi un rapporto di collaborazione basato sulla stima reciproca. Quando poi diressi Se un giorno busserai alla mia porta (1986) con Virna Lisi, era una specie di prova per vedere se avevo le attitudini cinematografiche per ereditare La Piovra da Damiani e Vancini”.

C’era un progetto esplicito di fare una tv con metodi da cinema.

“Quando si faceva la Piovra era il periodo della grande offensiva delle tv private, e praticamente ci si doveva confrontare in prima serata con l’invasione di tutto il cinema americano. Anche per questo bisognava poter competere su quel terreno. Dovevamo raccontare con più forza, con più pregnanza, rispetto agli sceneggiati precedenti. Era il mio pane! Potevo metterci dentro tutta la mia passione per il noir americano e anche per quello francese. Era invece più debole il legame con la tradizione del poliziesco “civile” italiano, perché noi avevamo una cura maggiore per la conflittualità tra bene e male, c’era una componente dostoevskiana molto forte, proprio come nel poliziesco americano e francese, ma non in quello italiano. Lavoravamo molto sulla sceneggiatura, ad esempio nel rendere anche il “cattivo” più complesso. E potevo infilarci tutta la grande lezione stilistica del cinema americano, le inquadrature dal basso, un montaggio rapido nell’azione ma non velocissimo, perché volevamo essere molto attenti nella costruzione del suspense.  Per me contano molto anche le musiche. Morricone era entrato nella seconda serie della Piovra e io a partire dalla terza gli diedi un enorme spazio nella ricerca  di sonorità. Scenografia, ambientazione, atmosfere musicali sono componenti essenziali”.

Partecipava alla sceneggiatura?

“A volte. C’era comunque sempre una revisione che si faceva insieme. E una figura fondamentale era Sergio Silva, il vero producer della Piovra“.

Perché finì?

La Piovra finì per l’avvento di Berlusconi, che ci ha paralizzato. La DC era certo critica, ma alla Rai c’erano funzionari -anche democristiani- molto aperti. Mentre con l’arrivo di Berlusconi anche i funzionari “di sinistra” rimasero bloccati: ci fu una vera paralisi. D’altra parte con La Piovra avevamo creato qualcosa che non solo si occupava dell’Italia del momento, ma incideva anche politicamente, ed infatti ci furono molte proteste su quel versante. Con Berlusconi si bloccò tutto. Secondo me, però , c’era anche una questione di invidia, quando andò in Russia tutti gli chiedevano della Piovra e lui reagì…”

Oggi è diventato quasi un luogo comune dire che ormai il cinema si fa nelle serie tv.

“Molte serie tv italiane sono fatte molto bene, in particolare certe cose di Sky. A volte si potrebbe forse lavorare un po’ di più sulle sceneggiature, ma sono dettagli. E dall’America arrivano serie di grandi capacità narrative, proprio sul piano delle idee. Dobbiamo anche tener presente che quando noi abbiamo cominciato lo schermo televisivo era molto limitante. Oggi una tv 4K ti dà una possibilità di grande spettacolo, sia visivo sia sonoro, che è tutt’altra cosa rispetto a quei tempi”.

E adesso?

“Avevo provato a ripercorrere la strada della Piovra con Un caso di coscienza, che era una specie di oasi: costava meno, provocava meno reazioni, permetteva di affrontare certi argomenti… Ma non aveva la forza spettacolare e quindi d’impatto della Piovra: per me resta sempre un’esperienza minore.  Adesso sto lavorando a un documentario sul maggio francese che avevo fatto nel 1970, Le Ghienlit: i giorni del maggio. Sto preparando una nuova edizione utilizzando una serie di materiali che non avevamo potuto usare per motivi burocratici: uscirà all’inizio del 2018, per i cinquant’anni”.

 

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