Cannes 2017 – 6: “Nothingwood” di Sonia Kronlund

di Renato Venturelli.

Nel giro di un paio di giorni si vedono tanti film più o meno al femminile. In concorso, la Naomi Kawase fin troppo programmaticamente dimostrativa e didascalica di “Hikari”, quindi il remake di “The Beguiled” firmato Sofia Coppola (scontato leggerlo dal punto di vista delle ragazze), e poi Jane Campion in versione televisiva di “Top of the Lake: China Girl”, la deludente riflessione sull’eredità dei padri terroristi di “Dopo la guerra” (di Annarita Zambrano), il vitalissimo ritratto di una trentenne sbandata di “Jeune Femme” (interpretata da Laetitia Dosch).

Molto più curioso “Nothingwood“, il documentario che Sonia Kronlund ha dedicato a Salim Shaheen, Z-star del cinema afghano, attore e regista che ha già girato centodieci film mescolando le sue grandi passioni: gli intrecci sentimentali e le canzoni alla Bollywood, Rambo (il miglior personaggio della storia del cinema), i combattimenti dei film di kung-fu. Un cinema dove buoni e cattivi, poveri e ricchi, sono grossolanamente contrapposti, dove si canta molto, dove si assiste a interminabili scene di guerra, ma dove a volte s’insinua anche l’autobiografia, o la propria mitologia personale.

Vediamo Salim mentre gira un suo film in pochissimi giorni, circondato dal solito gruppo di attori dilettanti, comporto per lo più da parenti e amici, ma soprattutto circondato dai suoi fan: lo hanno naturalmente definito l’Ed Wood afghano, il suo è un cinema primitivo e primario fino all’autoparodia, ma sullo schermo del film di Sonia Kronlund, Selim riesce a trasmettere la sua passione travolgente, oltre a funzionare più o meno coscientemente anche da filtro di una cultura.

Costretto a trasferirsi all’estero all’arrivo di talebani, non ama il loro estremismo, ma al tempo stesso non permette alle sue donne di mostrarsi davanti alla troupe del documentario. Estroverso e furbo, dice ciò che ci si vuol sentir dire da lui, ma sta bene attento a non esporsi. Un afghano si dichiara ex-talebano perché i talebani come Shaheen difendevano l’orgoglio e l’identità di una nazione, e sostiene che -pur rifiutando ufficialmente il cinema- molti di loro avevano i film di Shaheen sul telefonino.

Un esempio estremo di cinema popolare, quasi una regressione alle origini del cinema come stupore ed entusiasmo infantile, ma anche attraversato da un’energia inesauribile, dall’ossessione di vivere sempre attraverso il fare cinema. E il titolo si rifà a una sua definizione del proprio lavoro e del cinema afghano: “Nothingwood”, perché è fatto quasi completamente senza mezzi.

Postato in 70 FESTIVAL DI CANNES 2017.

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