MOSTRA DI VENEZIA 2014 – NOBI (Fires on the Plain) di Shinya Tsukamoto


di Juri Saitta.
Eccessivo, delirante e allucinato: questi sono i termini per poter descrive Nobi, il nuovo film di Shinya Tsukamoto, che ancora un volta si conferma uno degli autori più estremi del cinema contemporaneo.

L’opera si svolge in un’isola delle Filippine durante la seconda guerra mondiale e ha come protagonista un soldato giapponese che perde quasi tutto il suo plotone in un attacco nemico. Per questo il combattente vagherà nella natura senza meta e con il solo scopo di sopravvivere.

Presentata alla 71a Mostra del Cinema di Venezia, l’ultima fatica del regista nipponico è – apparentemente – colma di difetti, in quanto ha una sceneggiatura con alcuni vuoti narrativi, una fotografia spesso sovraesposta e dei montaggi “sbagliati” che operano degli stacchi sulla stessa identica inquadratura.

Tutto ciò risulta però assolutamente giustificato e persino “desiderato”, in quanto al regista di Tetsuo interessa descrivere la guerra come qualcosa di allucinante e sconvolgente. Di conseguenza, la confusione narrativa è funzionale a rendere percepibile il caos bellico, mentre l’illuminazione in eccesso e gli stacchi “irregolari” servono a restituire la follia della vita di combattimento.

Quello di Tsukamoto è dunque un film intenzionalmente “sporco” e quasi “antiestetico”, esattamente come il contesto e le vicende che vuole rappresentare.

È proprio in tale prospettiva che risulta assolutamente coerente e persino necessaria la violenza estrema di varie immagini e “svolte” narrative: se quest’ultime raccontano di cannibalismo, carneficine e uomini impazziti, le seconde mostrano volti deformati, corpi mutilati e interiora che escono da ogni parte anatomica.

Elementi che non solo definiscono l’orrore bellico, ma che ritornano ulteriormente su una delle ossessioni del cineasta: il corpo e le sue trasformazioni.

In Nobi tale tematica acquista, infatti, un ruolo assolutamente centrale: qui si parla di corpi internamente malati (i polmoni del protagonista), corpi spezzati e dunque mutati, parti di corpi che diventano possibile alimento nutritivo, ecc.

Questo in un film che mette in scena il potenziale più pericoloso e incivile dell’uomo, pronto a commettere qualsiasi crudeltà pur di sopravvivere. Un aspetto che viene indicato non solo dalle radicali scelte linguistiche e narrative, ma anche dal luogo in cui si svolge il racconto: la giungla selvaggia delle Filippine, ambiente che rispecchia appunto il lato più feroce e “animalesco” dell’essere umano.

È proprio per tutte queste caratteristiche che l’opera può dividere nettamente gli spettatori: qualcuno la sosterrà, altri la detesteranno. Aspetto che però non limita il potenziale del film, perché in tal caso importa poco che il risultato sia soddisfacente o pessimo, ma che piuttosto lasci nel pubblico una traccia quasi “indelebile”. Obiettivo pienamente raggiunto, talvolta in maniera un po’ effettistica ma sempre di grande impatto ed efficacia.

(di Juri Saitta)

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